
Il sud dell’Italia. Terra da sempre schiacciata tra l’acqua salata e l’acqua santa, definizione migliore non c’è, le sue genti hanno sempre camminato sull’orlo di due mondi, uno reale costituito dal duro lavoro della terra e del mare, un secondo mondo irreale fatto di usi, costumi, credenze spesso costituiti da retaggi ancestrali oppure lasciati in eredità delle diverse culture e dominazioni che si sono succedute hanno creato una cortina, una nube antropologica che ancora oggi avvolge il sud che risulta difficile da diradare.
Di credenze e da sfatare c’è sono tante e ognuna presenta un fascino unico, ma quello che riesce a dare ancora brividi – per quello che ha rappresentato sotto il profilo culturale e storico per la condizione della donna – è stato il fenomeno della stregoneria che ha visto la sua fine proprio paradossalmente nel sud, in Calabria.
La stregoneria ha interessato tutta l’Europa attraversandola da nord a sud lasciando dietro di se solo roghi e vittime, ha oltrepassato il mediterraneo approdando nei vicini Balcani ad est e a sud in Africa dove nei paesi del Maghreb è tuttora praticata.
Nell’Italia meridionale, la stregoneria vede un particolare radicamento in Campania e nello specifico nella città di Benevento.
Il motivo è da ricercare durante il medioevo, sembra che tale credenza si sia sviluppata durante la dominazione longobarda nel ducato di Benevento appunto.
I Longobardi pur convertendosi al cristianesimo non avevano mai lasciato del tutto le loro credenze pagane, in particolare della venerazione degli alberi; pare che avessero particolarmente in auge un rito propiziatorio per i propri guerrieri che evocava un dio chiamato Wotan (Odino).
Il rito consisteva nel lanciare i cavalieri al galoppo, girare intorno ad un albero di noce e colpire con le lance una pelle di un caprone appesa, staccarne dei pezzi per poi mangiarli.
Ma torniamo alle credenze che si sono costruite intorno alle streghe. Nel beneventano la strega prende il nome di “janara”, l’origine di tale nome è controversa, sembra che possa derivare da “dianara”, cioè sacerdotessa di Diana, oppure da “ianua” che in latino significa porta. L’attinenza con la porta sta nel fatto che la “janara” fosse molto abile a introdursi nelle case per rapire i neonati.
Dobbiamo premettere che una delle caratteristiche delle streghe era la curiosità, per evitare il suo ingresso in casa, si ponevano scope di saggina o sacchetti con grani di sale, in modo che, la “janara” presa appunto dalla curiosità, si mettesse a contare i fili della scopa o i granelli di sale, senza poter venire a capo del conto. L’alba sopraggiungeva e la “janara” era costretta a scappare per non farsi riconoscere e prendere.
Un’altra leggenda racconta che nelle notti di plenilunio la strega si spargeva un unguento magico sotto le ascelle e pronunciando la formula “cu la pioggia e cu lu vient, puort’m sott’o noce e Benevient” (trad. con la pioggia o con il vento portami sotto il noce di Benevento) si lanciava dalla finestra e volando arrivava all’albero di noce, dove si festeggiavano i sabba dove erano presenti altre streghe e un caprone.
Anche nel resto del meridione la credenza della strega era molto radicata, erano presenti in tutte le regioni ma con i nomi diversi: Fattucchiara in Basilicata, Animulari in Sicilia, Magare in Calabria, Mascia nel nord della Puglia, dove prendeva anche i nomi Malumbra e Sciara nella parte meridionale.
Quest’ultime si differenziano nei comportamenti: la Malumbra si caratterizzava – secondo la credenza popolare – per una spiccata cattiveria, infatti, era una crudele interprete di fatture che potevano arrivare sino all’eliminazione fisica della vittima; vivevano sole, avevano un brutto carattere e per questo motivo erano spesso emarginate.
La Sciara, viveva in segreto tra le persone, si confondeva tra le ragazze e le anziane del paese quindi nulla lasciava credere che avesse una seconda identità; l’unica cosa a tradirle era la crescita di un ciuffo di peli neri intorno al capezzolo in una notte particolare dell’anno, detta appunto la notte delle streghe nel mese di novembre.
Nella realtà le streghe, altro non erano che semplici donne che vivevano fuori degli schemi dettati da una società fortemente clericale e maschilista; se una donna non seguiva queste regole era considerata “sospetta” e una volta entrata nel mirino difficilmente riusciva a sopravvivere.
Spesso si trattava di povere contadine che sopravvivevano isolate per sfuggire realtà di violenze e abusi, oppure di poverette affamate che ostentavano poteri magici per ottenere un po’ di cibo o tenere i pericoli lontano. A volte si trattava di donne addirittura con problemi psichici e senza nessuna consapevolezza di esser considerate diverse, e quindi di vivere “a rischio”.
Esiste un episodio – famoso per essere passato come “l’ultimo processo di stregoneria nel Regno di Napoli” – che riguarda una donna Cecilia Faragò condannata perché accusata di stregoneria.
La Faragò, fu accusata da due preti di aver causato tramite sortilegi, prima la malattia e poi la morte dell’uomo di chiesa tal Antonio Ferrajolo.
Dopo un lungo processo – la donna era difesa da un giovane avvocato calabrese Giuseppe Raffaelli – nel marzo del 1770 si riuscì ad evitare la condanna grazie alla sua convincente difesa, oltre a questa mirabile impresa l’arringa del Raffaelli divenne tanto celebre a tal punto che si decise di abolire il reato distregoneria.
Janare e Sciare
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