
Siamo a Napoli verso gli inizi del 1600. La città, quella vera brulica di commercio e di vita, è un ambiente malsano. Il centro è un dedalo di viuzze e strade strette chiuse da alti palazzi dove il sole riesce a malapena a passare.
Gli odori si accavallano e il tufo vesuviano assorbe tutti i vapori e i fumi annerendosi come il basolato. Tutto restituisce un’immagine di una metropoli mediterranea tetra, dove tutto sembra fagocitato dall’enorme massa popolare che infervora le strade. È in questa scena urbana che tra non molto camminerà uno dei geni dell’arte come Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, l’artista che lascerà il segno nella storia dell’arte più di chiunque altro; ed è sempre in questo l’ambiente che nasce e si forma Giovanbattista Basile, bellissima figura poco conosciuta nella letteratura italiana ma che paradossalmente vedrà la sua opera alla base di molti racconti letterari di ben più ampio respiro.
Nato a Napoli nel 1575 da famiglia di artisti e cortigiani divenne lui stesso uomo di corte oltre che di lettere. La sua giovinezza fu segnata dal servizio prestato, come volontario, nelle truppe della Repubblica Veneta, in quel periodo impegnata a fronteggiare il pericolo turco nel Mediterraneo.
Nel 1608 tornò a Napoli dove entrato in contatto con personalità in vista iniziò a frequentare la corte del principe di Stigliano, per tale iniziativa sembra che sia stato coadiuvato dalla sorella, già molto nota negli ambienti cortigiani poiché cantante.
In questi anni inizia la sua opera di letterato ma è con l’amicizia stretta con Giulio Cesare Cortese – suo maestro e compagno d’arte nel parlare napoletano – che riscopre e raffina la sua conoscenza della “lengua napoletana”.
Una volta consolidato il bagaglio linguistico della lingua napoletana, al seguito della sorella nel 1613 si trasferì a Mantova dove compose madrigali in onore dei Gonzaga. Il soggiorno lombardo durò poco tempo perché sempre nello stesso anno, per motivi di salute, fece rientro a Napoli dove si stabilì definitivamente. È qui che inizia la vera storia di Giovanbattista Basile.
Forse ispirato dalla vena artistica o dalla “foja” (vivacità) che alberga in tutti i momenti nei vicoli della città che scrive l’’opera che lo consegnerà definitivamente, in modo silenzioso, alla storia. L’opera sua più importante “lo Cunto de li cunti” fu pubblicata dopo la sua morte, lasciato dal Basile che era poco più di un manoscritto, la prima edizione fu pubblicata con l’aggiunta di un frontespizio sul quale era riportata la denominazione di “Pentamerone” sottotitolato con la didascalia “trattenimento de piccerille”.
L’opera si compone di cinquanta fiabe tutte di origine popolare, raccontante nel corso di cinque giorni (da cui il termine Pentamerone).
Tutti conosciamo e chissà quante volte è capitato di leggere o di raccontare la fiaba di Cenerentola di Charles Perrault ma pochi sanno che la storia era arrivata molto prima per via popolare a Basile, il quale la rielaborò proprio nel “lo Cunto de li cunti” e la trascrissedando il nome alla fiaba di “La gatta cenerentola”.
La storia è quella della ragazza sfortunata – Cenerentola appunto – che dopo tante ingiustizie subite dalla matrigna e dalle sorellastre alla fine grazie alla scarpa (chianella nella storia del Basile) diventerà sposa del principe azzurro. Persino Walt Disney, famoso autore di lungometraggi di cartoni animati, portò sul grande schermo – nel 1950 – la fiaba con il titolo americanizzato di “Cinderella”.
Ma questa non è l’unica fiaba del Basile a varcare i confini mediterranei ed europei.
Esiste sempre nel Pentamerone un’altra favola intitolata “Cagliuso”, che racconta la storia di un gatto saggio che aiuta in tutti i modi, un povero uomo a far fortuna. Questa fiaba diventerà nota dopo nel corso del 1700 con Johann Ludwig Tieck, con il titolo de “il gatto con gli stivali”.
L’opera di Giovanbattista Basile fu stroncata dalla critica letteraria settecentesca italiana, però qualche copia giunta in Francia fu tenuta in grande considerazione tanto da essere reinterpretata dal Perrault come abbiamo visto; fu solo nel 1754 “lo Cunto de li cunti” fu tradotto in italiano facendole però perdere quell’incisività originaria conferitagli dalla lingua napoletana. Un’altra traduzione fu eseguita integralmente nel 1846 da Jacob Grimm.
…c’era una volta…
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