lunedì 30 giugno 2014

La Cupeta

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ph. M.Ciccarese ph. M.Ciccarese


La cupedia, dolce tipico del Mediterraneo, diffuso dagli arabi dal quindicesimo secolo, con il nome di qubbaida, attraverso la città spagnola di Alicante, giunge tra le nostre terre fino ad assumere quel fascino e quel sapore tostato che caratterizza le roventi feste meridionali.


Il classico torrone non dovrebbe ricordare solo la figura di una banale torre perché i sanniti e i latini già lo conoscevano avendolo ereditato dall’ingegno arabo come un alimento superbo ed energetico ma a forma di generoso cuore.


La cupeta propriamente detta contiene l’aroma del limone e della vaniglia, il croccante dei pinoli e delle mandorle, il colore del pistacchio di Caltanisetta, l’avorio della Sardegna o l’ambra del Salento; per ogni terra un rito di produzione, una ricetta segreta o una formula magica che garantisce ai ghiottoni un’esplosione di sapore.


La pasta caramellata che lentamente si distende e si raffredda sul ripiano del cupetaro, invita, i super dentati a quel repentino morso che scompone la sua gradevole vivacità alchemica non solo sulla percezione del gusto.


Allora si pensa di offrire, come si faceva un tempo, un pezzo di cuore di questo mieloso treno mandorlato alla propria fidanzata, strettamente avvolto nella sua immagine come messaggio e simbolo d’amore.


“Tieni lu core testu comu la cupeta te Santu Ronzu” sarebbe invece l’espressione colorita d’un vecchio alla consorte dopo aver ricevuto, rincasando a tarda ora, come “mattarellata” proprio il duro dolce che gli aveva portato dalla festa patronale.


Un dolce solido come una roccia, che in Puglia, ricorda quella breccia calcarea a cui Federico II di Svevia s’era affezionato per edificare i suoi castelli e invitare le corti a celebrare le vittorie.


Eppure il cuore della cupeta non è solo il tradizionale dolce di regge e imperatori, oggi lo incontriamo così semplicemente tra le parate festose dei santi popolari, esposto sui camioncini dei suoi produttori al prezzo che ci convince.


In ogni caso, quel che rimane della cupeta te lo ritrovi felicemente tra le tasche la mattina seguente, quel che non rimane, invece, lo ritrovi con il gradevole ricordo dei suoi aromi diffusi tra le luminarie della festa.



La Cupeta

sabato 28 giugno 2014

Pijare lu Iundulu: espressione di un movimento

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arcotesoL’espressione “pijare lu iundulu”deriverebbe dal dialettario salentino “iundu”, cioè onda, indica un’azione che sfrutta il moto di un’energia di qualunque tipo. In poche parole è come cavalcare, ad esempio, il flusso di un’altra forza naturale che agevola una manifestazione o supporta un atto quotidiano.


Gli uccelli che in volo si lasciano trasportare dalle correnti dell’aria per migrare rapidamente da una terra ad un’altra, rendono meglio l’idea di questo movimento.


D’altro canto la movenza ci ricorda vagamente anche quella lieve carica che i gatti accumulano sulle loro zampe, con ripetuti e repentini gesti, prima di proiettarsi sulla loro preda o per salire su un albero.


Per altri, il pijare lu iundulu sarebbe il tipico piglio di chi calcola le distanze e le forze disponibili prima di balzare su un altro luogo, un salterello per abbandonare uno stato e raggiungerne un altro o semplicemente un piccolo passo in avanti per spostarsi quindi in una nuova condizione.


È pijatu lu iundulu cu le parole e ci lu ferma cchiui? L’espressione assume tratto e colore anche quando si descrivono il politico durante un appassionato comizio, il professore ai suoi allievi attenti o la simpatica vicina di casa che bisbiglia alle sue piante. In questo caso s’identifica anche qualunque narratore che avvicenda il suo racconto appassionato senza concedersi una minima tregua quando cavalca un ascolto attento e partecipato.


Nello stesso dialetto, lu iundulu può essere anche un attimo di preparazione mentale o fisica prima di compiere qualche azione decisiva e importante. In questo caso, l’espressione si può chiarire o raffigurare come un arco teso al massimo, un attimo prima d’allentarlo per far partire il suo dardo verso l’obiettivo.


Il senso dello iundulu non ricorda solo il moto del mare ma anche l’atto del dondolarsi; quindi per molti sarebbe anche quella delicata e coordinata spinta che il corpo imprime al pendolo di un’altalena per non far spegnere il piacere del dondolio.


Il pescatore che esamina i moti ondosi, sa bene quando è il momento ideale per lanciare la sua barca sfruttando flussi e riflussi delle maree perché possa prendere facilmente il largo e agevolarsi il lavoro.


Il contadino non progetta il suo orto se prima non percepisce la forza dei movimenti lunari che stimolano e avviano i movimenti linfatici che regolano la radicazione.  Per questo quando una piantina radica, emette le prime foglie e si affranca all’autosufficienza nello stesso dialetto si dice: “è pijatu lu iundulu”.


Il concetto ha perciò una dinamica ancora tutta da scoprire, un gioco di forze strettamente correlate che influenzano le decisioni da prendere; se non si possedesse quella stessa veemenza utile che l’ha generato, è molto più difficile frenare la sua vitalità; occorre disporre perciò di una valida coscienza che non ci lasci andare oltre i confini o che abbia la facoltà di ripetere quell’identico scatto che l’ha prodotto.


Per questo lu iundulu si può definire in smisurati modi, ogni termine ha il suo personale slancio, chi lo manifesta e chi lo fa filare inosservato, chi lo rende impetuoso e passionale come se fosse una rivoluzione chi invece leggero e impercettibile come uno stimolo quotidiano.


In ogni caso, come sintesi della nostra analisi, per la gioia dei salentini, lo iundulu si può descrivere come un percorso, con le sue partenze e i suoi arrivi, o meglio come se fosse quell’attimo di concentrazione che il centometrista trasmette con coraggio al suo corpo quando è poggiato sul blocco di partenza, prima dello start e la scarica adrenalinica subito dopo la sua meta.



Pijare lu Iundulu: espressione di un movimento

mercoledì 25 giugno 2014

Il Pane dei Crociati

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ph M.Ciccarese ph M.Ciccarese


La friseddrha è un alimento che trae origine dalla coltivazione dei cereali, dall’umiltà e dall’ingegno del mondo rurale del Meridione d’Italia.  In questo prodotto l’impasto ottenuto dalla lievitazione di farina di grano duro o d’orzo con acqua, sale e lievito s’inforna fino a biscottarlo come si deve.


Tra una cottura e l’altra i miei amici fornai, spaccano, strozzano o solcano gli ellissi caldi di pane per assegnarle due facce dissimili: un’inferiore piatta e compatta e l’altra porosa e corrucciata. Una salda struttura da ammorbidire in acqua per poco più due istanti prima di essere centellinata per bene se non si possiede la robustezza di sgranocchiarla con un motivato ardimento.


Il suo etimo è un rebus, ma se paragono il termine del verbo fresare, conosciuto come quell’azione di sminuzzare o triturare le zolle di terra, posso ricavarne la somiglianza con quello della nostra frisa, verosimilmente proveniente dai richiami latini o addirittura cretesi.


Sono appelli scanditi nel passato dai ritmi lunari, quando il fornaio deliberava il giorno e l’ora precisa per preparare le friseddrhe in famiglia insieme alle muddriche, pezzi di pane, che riunivano le famiglie.


Una tacca identificativa per ogni prodotto facilitava al panettiere la dovuta consegna delle calde friseddrhe su pianori di legno e protette da plaid di lana che limitavano l’indesiderato e repentino dissiparsi dell’umidità.


Le friseddrhe erano il pane che conduceva non solo contadini e pescatori, ma anche i crociati, in partenza per la guerra santa. Si tenevano in serbo per tempi lunghi legandole tra loro tramite cordoncini di fibra vegetale o adagiandole nelle stive in ampi orci di creta, chiamate capase, utili varianti della più conosciuta ozza.


Una frisella per ogni periodo, quindi, per qualsiasi nomade goloso, da gustare rigorosamente con le mani e da condire con cubetti e succo di pomodorino da serbo o da insalata, olio d’oliva, sale, capperi, origano e aglio nella versione tradizionale o con melanzane, cipolla, peperoni in quella “ncapunata”. Samudaya può guidarvi in questa avventura.



Il Pane dei Crociati

Janare e Sciare

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Il sud dell’Italia. Terra da sempre schiacciata tra l’acqua salata e l’acqua santa, definizione migliore non c’è, le sue genti hanno sempre camminato sull’orlo di due mondi, uno reale costituito dal duro lavoro della terra e del mare, un secondo mondo irreale fatto di usi, costumi, credenze spesso costituiti da retaggi ancestrali oppure lasciati in eredità delle diverse culture e dominazioni che si sono succedute hanno creato una cortina, una nube antropologica che ancora oggi avvolge il sud che risulta difficile da diradare.


Di credenze e da sfatare c’è sono tante e ognuna presenta un fascino unico, ma quello che riesce a dare ancora brividi – per quello che ha rappresentato sotto il profilo culturale e storico per la condizione della donna – è stato il fenomeno della stregoneria che ha visto la sua fine proprio paradossalmente nel sud, in Calabria.


La stregoneria ha interessato tutta l’Europa attraversandola da nord a sud lasciando dietro di se solo roghi e vittime, ha oltrepassato il mediterraneo approdando nei vicini Balcani ad est e a sud in Africa dove nei paesi del Maghreb è tuttora praticata.


Nell’Italia meridionale, la stregoneria vede un particolare radicamento in Campania e nello specifico nella città di Benevento.


Il motivo è da ricercare durante il medioevo, sembra che tale credenza si sia sviluppata durante la dominazione longobarda nel ducato di Benevento appunto.


I Longobardi pur convertendosi al cristianesimo non avevano mai lasciato del tutto le loro credenze pagane, in particolare della venerazione degli alberi; pare che avessero particolarmente in auge un rito propiziatorio per i propri guerrieri che evocava un dio chiamato Wotan (Odino).


Il rito consisteva nel lanciare i cavalieri al galoppo, girare intorno ad un albero di noce e colpire con le lance una pelle di un caprone appesa, staccarne dei pezzi per poi mangiarli.


Ma torniamo alle credenze che si sono costruite intorno alle streghe. Nel beneventano la strega prende il nome di “janara”, l’origine di tale nome è controversa, sembra che possa derivare da “dianara”, cioè sacerdotessa di Diana, oppure da “ianua” che in latino significa porta. L’attinenza con la porta sta nel fatto che la “janara” fosse molto abile a introdursi nelle case per rapire i neonati.


Dobbiamo premettere che una delle caratteristiche delle streghe era la curiosità, per evitare il suo ingresso in casa, si ponevano scope di saggina o sacchetti con grani di sale, in modo che, la “janara” presa appunto dalla curiosità, si mettesse a contare i fili della scopa o i granelli di sale, senza poter venire a capo del conto. L’alba sopraggiungeva e la “janara” era costretta a scappare per non farsi riconoscere e prendere.


Un’altra leggenda racconta che nelle notti di plenilunio la strega si spargeva un unguento magico sotto le ascelle e pronunciando la formula “cu la pioggia e cu lu vient, puort’m sott’o noce e Benevient” (trad. con la pioggia o con il vento portami sotto il noce di Benevento) si lanciava dalla finestra e volando arrivava all’albero di noce, dove si festeggiavano i sabba dove erano presenti altre streghe e un caprone.


Anche nel resto del meridione la credenza della strega era molto radicata, erano presenti in tutte le regioni ma con i nomi diversi: Fattucchiara in Basilicata, Animulari in Sicilia, Magare in Calabria, Mascia nel nord della Puglia, dove prendeva anche i nomi Malumbra e Sciara nella parte meridionale.


Quest’ultime si differenziano nei comportamenti: la Malumbra si caratterizzava – secondo la credenza popolare – per una spiccata cattiveria, infatti, era una crudele interprete di fatture che potevano arrivare sino all’eliminazione fisica della vittima; vivevano sole, avevano un brutto carattere e per questo motivo erano spesso emarginate.


La Sciara, viveva in segreto tra le persone, si confondeva tra le ragazze e le anziane del paese quindi nulla lasciava credere che avesse una seconda identità; l’unica cosa a tradirle era la crescita di un ciuffo di peli neri intorno al capezzolo in una notte particolare dell’anno, detta appunto la notte delle streghe nel mese di novembre.


Nella realtà le streghe, altro non erano che semplici donne che vivevano fuori degli schemi dettati da una società fortemente clericale e maschilista; se una donna non seguiva queste regole era considerata “sospetta” e una volta entrata nel mirino difficilmente riusciva a sopravvivere.


Spesso si trattava di povere contadine che sopravvivevano isolate per sfuggire realtà di violenze e abusi, oppure di poverette affamate che ostentavano poteri magici per ottenere un po’ di cibo o tenere i pericoli lontano. A volte si trattava di donne addirittura con problemi psichici e senza nessuna consapevolezza di esser considerate diverse, e quindi di vivere “a rischio”.


Esiste un episodio – famoso per essere passato come “l’ultimo processo di stregoneria nel Regno di Napoli” – che riguarda una donna Cecilia Faragò condannata perché accusata di stregoneria.


La Faragò, fu accusata da due preti di aver causato tramite sortilegi, prima la malattia e poi la morte dell’uomo di chiesa tal Antonio Ferrajolo.


Dopo un lungo processo – la donna era difesa da un giovane avvocato calabrese Giuseppe Raffaelli – nel marzo del 1770 si riuscì ad evitare la condanna grazie alla sua convincente difesa, oltre a questa mirabile impresa l’arringa del Raffaelli divenne tanto celebre a tal punto che si decise di abolire il reato distregoneria.



Janare e Sciare

lunedì 23 giugno 2014

Sotto il segno dell’Ulivo

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ulivo e la mezzaluna 6 (1)Secondo lo zodiaco celtico chi nasce durante i chiaroscuri dell’equinozio d’autunno, si ritrova sotto la protezione del segno dell’albero d’ulivo ed entra nel mondo brillante della forza passionale e della pace


Gli uomini ulivo richiedono amore, sincerità e giustizia affinché possano rispondere alla loro indole inflessibile, dimessa e dubbiosa che li rendono spesso indecisi, a volte volubili e istintivi o vulnerabili e impacciati quando devono esprimere un opinione.


Come l’albero che è circondato dai suoi simili, l’uomo ulivo ama la compagnia e la solidarietà, dispone una buona volontà di socializzare con smisurato altruismo e buona capacità nell’ascoltare gli amici.


Sotto il suo segno, simbolo di vittoria, come fu per la dea Athena su Poseidone, l’evoluzione del suo protetto, si orienta verso un’equilibrio interiore e la perfezione, in un continuo dondolio di stati d’animo che lo caratterizzano.


L’apparente scarso entusiasmo amoroso che rende discreto e riservato l’uomo ulivo nasconde in realtà una certosina ricerca del proprio sentimento che lo conduce a esaminarsi per ogni particolare prima di compiere una scelta importante.


L’uomo ulivo scruta scrupolosamente ogni azione intrapresa dell’impegno lavorativo, dove scopre slancio e affermazione specialmente quando trova il sostegno di colleghi con i suoi segni affini che sono l’olmo e il cipresso.


 



Sotto il segno dell’Ulivo

L'albicocca

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albicoccaIl nome parte dagli antichi romani per precisare la sua precocità di maturazione, passa attraverso greci e persiani per essere identificata tra le terre italiche come albicocca (Prunus armeniaca) e in particolare per i napoletani crissommuolo, per i sardi barracoccu, per i siciliani pricocu o varcocu.


I salentini indicano questo frutto glabro e lucido, parente di ciliegie e prugne, con il nome di spergia o piricocca, mentre il nome abbastanza simile di mbrichecu lo riservano all’albero del pesco.


Quei residenti dell’Adriatico, più vicini ai miti greci, possono narrare di quell’albicocca dorata che Paride offrì alla dea Afrodite, un pomo che scatenò l’implacabile gelosia Atena, l’ira che costò la distruzione di Troia e un grande esodo di profughi.


Il pomo dorato avrebbe rappresentato il simbolo della sfera terrestre, un segno di potere per re e imperatori romani, da posare all’apice dei loro scettri, molto prima quindi delle dimostrazioni pratiche conseguite nel cinquecento con l’esperienza dei viaggiatori. Sarà questo il motivo per cui l’offerta della prima albicocca rappresenta per i salentini un simbolo di augurio per viaggiare e scoprire nuove terre?


In realtà, prima di accomodarsi nel nostro habitat, l’albero dell’albicocca pare che abbia iniziato il suo viaggio partendo dalla lontana Cina dopo aver attraversato l’Armenia. Ci potrebbe essere lo zampino di qualche grande imperatore appassionato di agronomia per valorizzare questa pianta, anche se ignoti arabi probabilmente ci avevano già pensato impiegandola in medicina.


Arabi o non arabi, la nostra albicocca già ci rifulge al sole di giugno e s’inoltra fino alla seconda decade di agosto a sporgersi come un frutto di pregio ricco di virtù vitaminiche da gustare sotto forma essiccata, sciroppata o fresca come meglio le preferiamo.



L'albicocca

Il pero di San Giovanni

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pera di San GiovanniIl vigoroso pero di San Giovanni è una varietà antica e precoce molto diffusa nel sud del Mediterraneo. I loro pomi maturano subito poco dopo le albicocche e i fioroni e si raccolgono proprio a fine giugno, i giorni della ricorrenza di San Giovanni.


Non si può dire che il suo aspetto abbia meno classe rispetto alle altre varietà di pere, con la sua piccola sagoma ovale, slanciata e cuoriforme, una scorza ocra e opalescente alla maturazione che lascia intendere al gusto una polpa davvero dolce e aromatica.


La produzione è relativa allo stadio di decadenza della pianta. Una produzione che tende a ridursi anno dopo anno con la vetustà dei suoi tronchi ma, quando la fioritura tiene bene, l’albero ti assicura panieri colmi di frutti, di quelli che è difficile trovare nei supermercati.


Quasi come nella storia di Pinocchio, un racconto salentino narra di un abile mezzadro e scalpellino che avrebbe sradicato un ormai non più produttivo albero di pero. Il legno dell’albero sarebbe servito per scolpire la statua di San Giovanni Battista per la chiesa del suo paese con l’intento di richiedergli una grazia per una vita più agiata e priva di stenti. Quando il giorno della ricorrenza del Santo non ebbe neanche l’ombra di una minima, grazia, il povero contadino lasciò la chiesa bofonchiando alla statua: eri piru e pire nu nde facivi, mo ca si santu mancu grazie faci.


Un proverbio dalle mie parti recita: pane e pere cibo da cavaliere, ci si riferisce proprio alla pera di San Giovanni, per ribadire la generosità e le nobili virtù di questo frutto raro. Come tutte le varietà che Samudaya descrive, tra il suo ricco giardino estivo non potevano mancare le care amate pere.



Il pero di San Giovanni

domenica 22 giugno 2014

Capperi! Che bel fiore…..

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Ph M. Ciccarese Ph M. Ciccarese


Quando si manifesta il fiore bianco e rosa del cappero, si esprime meraviglia con il suo stesso etimo. Il suo nome pare derivasse dal greco kapparis, dalla radice che si avvicina a quello con cui si designa la brulla isola di Cipro dove la pianta è molto diffusa.


Con qualche baratto di vocale il curioso appellativo potrebbe derivare dalla pronuncia orientale persiana di Al-Qabar che si riversa in Europa attraverso gli spagnoli che lo chiamano alcaparra, con i francesi che invece lo chiamano caprier e con i sicilianie salentini con quello di chiapparo.


Il vello e le protuberanze dei frutti della pianta rasentano l’idea che anche il nome della capra comune derivi dalla stessa radice. Le cosiddette protuberanze altro non sono che i filamenti staminali divaricati della magnifica e inaspettata comparsa fiorile e l’eufemismo del titolo si potrebbe tranquillamente giustificare con la colorita espressione.


Il cappero o capparis spinosa, appartiene alla famiglia delle capparidace, cresce spontaneo tra i climi di pianura a quelli montani nell’area mediterranea; ha un energia germinativa che si riscontra tra le fessure dei muri più esposti al sole, su ruderi e castelli, quando è condotto da gechi e colombi. Il frutto è una bacca carnosa che quando è matura si apre e palesa una miriade di semi immersi nel suo nucleo polposo rosa.


Quando i boccioli del fiore, detti cucunci, sono ancora chiusi e verdi si raccolgono, è il momento in cui si raduna  la veemente capparutina, un flavonoide che deve essere deamarizzato in salamoia, posto sotto sale marino per quasi due settimane prima del consumo.


Il certosino e solerte rastrellamento della pianta avviene, a mani nude, tagliando con l’unghia del pollice il tenero caule, in prossimità dei nostri cucunci, preferibilmente nei tardi pomeriggi estivi quando l’aria si raffresca e la pianta si predispone a questo rituale.


Di ottimo valore è il cappero dell’isola di Pantelleria, un prodotto regolamentato dai disciplinari ministeriali di produzione tipica e dalle tradizioni alimentari del suo luogo che aggiunto alla leggendaria insalata pantesca ne fanno un piatto dalle sorprendenti virtù.


Insalata Pantesca (dose per single)


Un piatto dolce, vivace e veloce che si trama almeno mezza giornata prima ammollando nell’olio extravergine di oliva i fatidici capperetti di Pantelleria dopo averli dissalati e sbriciolati.  Il tempestivo strizzamento del cappero è un intervento che richiede doti raffinate da chef, una certa manualità che deve onorare impercettibili regole. Si allessa la patata, così com’è, in una soluzione di acqua e sale, si sbuccia e si affetta. Subito dopo si taglia una cipolla, possibilmente di Tropea, a rosette sottili e il pomodoro di  Pachino a bulbilli, si scolano le olive nere denocciolate e i capperi, si mescola e si insaporisce con olio extra vergine d’oliva, con un presa di origano, qualche tenera fogliolina di basilico e un pizzico di sale e pepe.


 



Capperi! Che bel fiore…..

sabato 21 giugno 2014

Il Giglio

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giglioLilium è il nome latino che lo classifica tra le schede dei botanici; il suo nome potrebbe avere radici persiane e sta ad indicare la delicatezza e i riverberi dei suoi tepali, molti lo indicano come fiordaliso (vedi nota sotto).


Il re dei Franchi, Clodoveo, in seguito alla vittoria a scapito dei Visigoti, sostituì sul suo scudo il simbolo della mezzaluna con quello del fiore del giglio. Il fiore, in realtà, eredita un significato che si perde nella storia dei tempi di molte sovranità egiziane o assire.


Ogni giglio ha il colore di un linguaggio o il significato di un mutamento:  da quello bianco che esprime purezza, candore o innocenza a quello giallo che si associa alla nobiltà d’animo, da quello rosso della passione e dell’amore proibito a quello rosa della vanità.


Ci sono troppe storie e leggende intorno ai suoi tre petali che sbocciano intorno agli aspetti mistici e divini di molte religioni dall’antichità ad oggi.


La ninfa Persefone figlia di Atena fu rapita da Ade mentre era distratta a cogliere i gigli dal suo giardino e addirittura Venere si sarebbe inebriata spesso con l’odore speziato dei suoi petali eretti.


Un fiore eccelso, raffinato e glorioso come vuole la tradizione ebraica e cristiana, bandiera di Sant’Antonio da Padova e dell’Arcangelo Gabriele, ma anche della procreazione, della prosperità, della fede coniugale e del rito nuziale con gli antichi greci e romani.


Con la passiflora è simbolo della Pasqua e della Passione perché una leggenda narra che questi fiori si sarebbero sublimati sotto la Croce con le gocce del sudore di Cristo e sarebbero stati anche la coltre di fiori sotto gli ulivi del giardino del Getzemani. In ogni caso un bel mazzo di gigli è un bel dono da fare nel periodo pasquale.


Questa breve nota la dedico agli amici appassionati e studiosi di botanica che giustamente classificano il fiordaliso (Centaurea cyanus) alla famiglia delle Asteracee. Il termine sopraindicato si riferisce sommariamente al carattere storico riferito al modo con cui i francesi indicavano il giglio come “Fleurdelys” fiore dedicato ad uno dei loro re ( Flor de Loyis). 


 



Il Giglio

il pasticciotto

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pasticciotto lecceseLu pasticciottu leccese: unu pe tutti, nu tutti pe unu” 


Il pasticciotto salentino è dolce come la sua terra di produzione. Nel Salento questo dolce dal nome paffuto, lo trovi ovunque, senti il profumo della sua pasta frolla cotta tra le vie del barocco di Lecce affollate di forni e non puoi fare a meno di fermarti un istante ed assaggiarlo.


Un origine che risale forse ai principi del Settecento, figlio del barocco, dal tempo del Regno delle Due Sicilie di Carlo III che già qualcuno descriveva come una piccola barchetta bombata e ripiena di crema pasticcera, lucida e ambrata d’albume d’uovo in grado di spingersi fino alle 400 chilocalorie.


Il pasticciotto si consuma con serafica calma, quando è più o meno caldo, poco dopo l’alba, possibilmente nel centro storico di Lecce, prima che si rianimi , quando ancora il silenzio amplifica la sua percezione.


Ne esistono varianti quasi “pirotecniche”, da quella con insaccato di crema mista e confettura per i più giovani a quella al cioccolato per gli Stati Uniti, da quella secca e nostalgica del fruttone alla marmellata nera d’uva Malvasia a quella con scaglie di fichi secchi, mandorle tostate e di canditi d’arancia.


Con questo tipo di colazione i leccesi ribadiscono il loro forte legame con la tradizione e lo portano orgogliosamente fuori dalle loro stive in ogni angolo del mondo, ne fanno un vera e propria icona con il simpatico motto che lo accompagna.


Questo capolavoro di dolce è presente nell’elenco nazionale dei prodotti agroalimentari tradizionali proclamato dal Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali (ai sensi dell’art. 8 del D.Lgs. 30 aprile 1998, n. 173).



il pasticciotto

Non abbattete quei pini sacri

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ph M.Ciccarese ph M.Ciccarese


Perché c’è sempre un’adorabile ninfa dietro la nascita di un albero? Molti alberi prendono il nome da una trasfigurazione, una leggenda, ricca di simboli e contenuti. Il pino domestico ad esempio, ha il fascino e la carica simbolica della ninfa Piti che gli rende il titolo.


È un albero sacro alla dea della fecondità, consacrato con i ludi romani durante l’equinozio di marzo, dedicate a Cibele e al suo amore frigio Attis. In loro onore si sacrificava un solo pino, si cingevano con cura le ferite dei suoi tagli e si festeggiava con flauti e petali di viola presso la pietra nera sul colle Palatino di Roma accanto alla casa del fondatore Romolo. La festa dell’arbor intrat era per i romani un culto che li univa agli etruschi, oltre che a quelli greci, e quello dei popoli celtici che dedicavano al dio Pan e a Odino una vera riverenza verso l’albero di pino.


Nell’oriente, il longevo albero di pino, rappresenta l’immortalità; tra altri popoli i suoi aghi e la sua resina avevano il potere di allontanare gli spiriti più infami e respingere gli anatemi, mentre le sue radici avevano facoltà di avviluppare e difendere le fondamenta dei templi più riveriti. La forma del suo frutto la ritroviamo accanto alla nobiltà dei templi dedicati alla rinascita e alla clemenza.


Nell’era moderna, spesso, non si è per nulla clementi con questi alberi, l’abbattimento delle alberature di pino, in paesaggi urbani, per assicurare l’incolumità pubblica o per altri reconditi motivi, è all’ordine del giorno e si preferisce meglio demolire che seminare.


Il messaggio è uno stimolo a riflettere bene prima di eseguire scelte irrazionali perché i pini, oltre che un bene comune, sono esseri luminosi come la coraggiosa ninfa che li protegge.



Non abbattete quei pini sacri

Il Mustazzolo: un dolce tipico salentino

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mustazzoliAl seguito del gonfalone e della banda, si reclinano le sponde degli unici motocarri autorizzati ad esporre nel bel mezzo della festa di paese e si apre ai viandanti la sospirata offerta dei mustazzoli.


Il mustazzolo ha il colore della terra e l’odore del mediteraneo; è una dolce meteora che luccica sotto archi di luminarie colorate l’intensità della sua glassa di cioccolato.


Un cuore di biscotto da sgretolare con la robustezza di una grappa al negro amaro, con l’agrodolce di un vin cotto o con la morbidezza di uno sciroppo di carrube.


Quando distacchi il mustazzolo dalla sua farcitura ne strappi sempre un piccolo corpo dell’altro vicino poi, a morsi, gli arrotondi la sua farcitura, ne ridefinisci la sagoma e cerchi di scoprirne al palato la sua esclusiva esplosione di essenze.


Sono pizzichi di spezie, a seconda della sua versione, dall’anice alla cannella, dal decotto di fichi al miele o al mosto d’uva agli agrumi, da una manciata di granella di mandorle a quella di nocciole.


La sua ricetta, decisamente “barocca”, si trasmette da secoli, forse dal 1500, nel  regno delle due Sicilie, e si identifica con nomi diversi a seconda della sua sorgente.


Pare che il nome fosse una deriva dal mustaceum, una sorta di focaccia nuziale cotta proprio con gli aromi delle foglie d’alloro e offerta agli ospiti prima di una partenza. La sua genesi, giunge, con gli arabi esperti nell’escludere il processo della lievitazione nella lavorazione del pane ma il segreto della sua bontà occorre chiederlo forse all’antica arte pasticcera Pugliese.



Il Mustazzolo: un dolce tipico salentino

La Calla per una Bellezza

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ph M.Ciccarese ph M.Ciccarese


Il nome di questa pianta è tutto un programma, deriva dal greco Kalos per indicarne la bellezza del suo fiore. In effetti, un’aiuola di calle come quelle riprese dall’obiettivo restituiscono con merito l’aggettivo del suo nome.


Se si descrive la pianta, botanicamente, ci si perde facilmente tra le sillabe della sua descrizione davvero singolare. Tanto per cominciare il nome botanico è Zantedeschia aethiopica, un vegetale originario del Sudafrica perenne e sempreverde della famiglia delle Araceae. Le sue infiorescenze di primavera sono solitarie e bianche composte da una spata, brattea imbutiforme e da uno spadice eretto di color giallo.


Un “fiorefoglia” quindi senza dubbio elegante e raffinato che si può donare a qualcuno di cui si ha vera stima. È anche un simbolo di amicizia, d’innocenza, di purezza, di candore o di apprezzamento per una donna proprio bella.


Si riscontra spesso nei matrimoni dal tempo degli antichi greci che celebravano il fiore alla dea Hera cui si attribuisce la nascita di questo fiore. Un fiore che rappresenta la Via Lattea nel firmamento celeste e le lacrime di Eva dopo la separazione da Adamo. I significati per questo fiore si perdono tra le religioni, le tradizioni popolari, l’arte e la poesia.



La Calla per una Bellezza

Intervista a Mimmo Ciccarese

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mimmociccaresePartiamo da te. Chi è Mimmo Ciccarese?


Mi piacerebbe partire con le presentazioni come se fossero l’inizio di un nuovo racconto. Potrei scaraventare le slide che riproducono i miei volti rugosi poco al disotto del limite della seconda maturità ma ve lo risparmio e mi limito a poche parole per descrivermi. Sono nato in Puglia, anzi nel Salento, dove penso di abitare un valore preparato alla pazienza, al sentimento e all’emozione. Credo di possedere una robusta struttura da sognatore che potrebbe essere l’opposto dell’indifferente. Quando possibile pianifico i miei propositi senza troppe pretese o illusioni. Ho pochi vizi da controllare, forse per me ci vorrebbe una sana rinascita e un nuovo esemplare da imitare per strafare con le cattive abitudini. Quando smetto i miei indumenti da tecnico agrario, predisposto alla qualità naturale dei prodotti e non c’è più da lavorare mi concedo l’opportunità di scrivere qualcosa.


Sei anche musicista e blogger, come porti avanti queste attività?


In realtà sarei quello che i salentini definiscono un “sunaturu” più che un musicista perché non sono in grado di comporre; in altre parole, un musicante con l’orecchio da zingaro con il ritmo binario della taranta o con l’anima del rock & blues .  Ho qualche strumento a corda riposto tra il disordine e il rigore dei miei abiti da lavoro. Recentemente ho scoperto un nesso tra la quarta corda del mio oud arabo e la malinconia, la sua vibrazione è quel tono invernale che giunge come un crepuscolo tra un uliveto. La musica dell’oud ha quattro corde, una per ogni umore, per ogni qualità elementare, per ogni stagione del tempo e della vita, la quinta nota si associa alla luna. L’ora in cui m’immergo nell’autorità lunare mi diverto a sfogliare i feedback e i commenti del webblog cercando di rispondere con qualcosa che desti curiosità e interesse postando “cartoline dalla terra”. Il blog con cui collaboro si chiama Samudaya, devo dire che riceve buoni riscontri, specialmente negli States. Inoltre scrivo per la salvaguardia degli ulivi secolari, per l’ambiente e l’alimentazione.


Da dove nasce l’idea di questo libro?


Il libro nasce quando con l’editore abbiamo cominciato a riflettere sulla possibilità di pubblicare un ebook, che fosse anche un anche ipertesto con la possibilità di essere utilizzato non solo come un romanzo, ma anche come una guida turistica e come veicolo di una cultura. L’idea innovativa è stata quella di creare un prodotto multimediale che fosse in qualche modo un’esperienza multisensoriale.


Il libro sembra il racconto di un viaggio. Era quello che volevi ottenere?


Ho sempre considerato che il fascino di un viaggio risiedesse molto nel racconto che lo accompagna. È molto facile smarrirsi nella nostra storia e questo racconto vuole essere considerato anche come un’indicazione culturale ed emozionale per ritrovarsi suoi luoghi.


Il protagonista del libro è il Salento, visto quasi con gli occhi di un bambino che osserva rapito e affascinato quello che incontra e accade attorno a lui. E’ anche il tuo modo di vedere?


Nell’Ulivo e la Mezzaluna, il Salento diviene un teatro naturale, dove il gioco dei percorsi interattivi diventa gradevole per chiunque sia predisposto alla comprensione di un luogo; il libro può servire per qualsiasi sguardo indipendentemente dalla sua età o indole sociale. Questo gentile rapimento è perciò una condensa di tradizioni, residenze d’eroi e miti utili per uno studio elementare o semplicemente per una lettura di un meritato svago oltre l’andirivieni dell’essere urbano. Con questo racconto, visione ed evasione sono l’unità o l’incontro con il mio pensiero abituale; ho voluto consolidare questa relazione tramite questo breve ma intenso diario scegliendo soluzioni tra quelle dimore energetiche in grado di restituire i sentimenti e i gusti genuini, le diverse culture salentine, il loro vissuto e i valori di una comunità.


Sei salentino, che significato ha per te questa essere nati e vivere in questa terra?


Il Salento è la mia espressione oltre che il torace su cui batte il mio cuore. Il Salento è una latitudine distesa tra oriente e occidente dalla forza dei suoi infiniti orizzonti marini. La mia terra ha perciò il fascino di almeno due culture unite in un solo corpo e rivolto in due direzioni opposte; dai rilievi calabresi che sentiamo dallo Ionio, oltre al turbinio delle correnti ci giunge anche l’energia dell’alito caldo del deserto arabo o di quello speziato dei balcani. I salentini sono l’essenza di una civiltà annessa al mare e alla terra nello stesso istante un equilibrio di colori per uno straordinario e vivo carattere. Nella mia terra continuo a spogliare troppe figure nel mio genoma, certamente quelle di tanti popoli incrociati che pare amplificassero la mia genesi tutte le volte che osservo le loro tonalità svestirsi ai riverberi del sole.


Nella trama del libro la storia, il passato, entrano ed escono in un collegamento costante tra ciò che è e ciò che è stato. Perché hai scelto di descrivere tutto con questa chiave?


Il tessuto del racconto è proprio quel lento movimento che tiene insieme l’origine dei suoi residenti e l’energia di una terra con tutte quelle meravigliose eredità da tutelare. In questo caso le tappe che fluiscono intorno al mar Mediterraneo sono il telaio del cerchio che ordiscono il racconto come se fosse un saldo filo di un tombolo o un fresco vinco su un canestro. Con questi propositi l’osservazione è divenuta semplice ricerca dei dettagli e ogni luogo pensato è stato così descritto.


Lo studio e la ricerca storica, per scrivere il libro, sono stati difficili?


Ogni partenza del viaggio dell’Ulivo e la Mezzaluna, è stata sospinta dalla passione per la ricerca storica oltre che dalla meraviglia per ogni scoperta. Il punto di arrivo di ogni sosta ha stimolato il passo successivo con la volontà e l’impegno che avrebbe un libero sognatore; quest’analisi mi ha cullato con facilità fin dall’inizio come farebbe una madre con il figlio.


Perché hai scelto di scrivere un libro in formato digitale?


Perché in un ebook in cui si può scoprire il gusto di una lettura gradevole con la possibilità di riportare i luoghi delle descrizioni ai collegamenti ipertestuali, i cosidetti link, che nel mio racconto guida sono di supporto. Nell’Ulivo e la Mezzaluna si trovano le mappe che indicano i percorsi stradali che aiutano a raggiungere le informazioni sufficienti per conoscere il Salento. In formato digitale lo storyboard per ogni tappa diviene di facile accesso grazie alle enciclopedie e ai satelliti disponibili in rete. Un epub può essere letto su un ebook reader, ma anche su device come smartphone, tablet, personal computer, iphone, ipad e imac. Se il supporto di lettura utilizza anche un browser per navigare su internet è possibile utilizzare i collegamenti ipertestuali, altrimenti rimane comunque un lavoro da leggere con interesse e piacere.


Quali sono i tuoi prossimi progetti editoriali o di altro tipo?


Ho già predisposto la rotta verso il prossimo progetto che se diventasse un’altra esperienza da vivere come un bel sogno, così com’è stato con L’ulivo e la Mezzaluna, mi concederei  di descriverlo alla stessa maniera, con l’identico passionale impegno che merita.


 


 


Mimmo Ciccarese è pugliese, anzi: salentino. Ha collaborato con diversi enti svolgendo attività nel settore della qualità agroalimentare e dell’olio da olive e del vino Negroamaro. Ha pubblicato diversi articoli per pubblicazioni on line e cartacee, locali e nazionali. Nel 2001 ha pubblicato per Anpa “Propagazione per seme di alberi e arbusti della flora mediterranea”; nel 2012 per la Camera di commercio di Bari il volume La potatura e i sistemi di allevamento dell’olivo e dei fruttiferi” e, nel marzo 2014, per Simbiosis Book il racconto guida in formato e-book L’ulivo e la Mezzaluna, un viaggio nel Salento che vede protagonisti i suoi ulivi secolari, la terra, il mare, la Storia e la gente di un luogo magico e affascinante, da sempre considerata la porta che collega l’Oriente e la Cultura araba all’Occidente.



Intervista a Mimmo Ciccarese

venerdì 20 giugno 2014

I monti del Salento

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ph di M. Ciccarese ph di M. Ciccarese


Il Salento è una latitudine distesa tra oriente ed occidente dalla forza dei suoi infiniti orizzonti marini. A volte, quando il cielo è più terso del solito, si affiancano al suo mare, i monti vicini e lontani, come probabili miraggi improvvisi, che rivelano frequenze d’albe e tramonti mozzafiato.


Dal paese delle Aquile, i monti Acrocerauni e da quello ionico, il massiccio del Pollino, s’incrociano qui, sul quarantesimo parallelo Nord, dove un tempo giunsero le antiche colonie cretesi per erigere il tempio dedicato a Minerva nonchè il luogo d’approdo per Enea fondatore di Roma, San Pietro Apostolo e di chissà quanti pirati.


Il Salento ha il fascino di almeno due culture unite in un solo corpo e rivolto in due direzioni opposte; dalle catene montuose, oltre al turbinio delle correnti, giunge l’energia dell’alito caldo del deserto o quello speziato dei balcani, l’anima di una civiltà annessa al mare e alla terra nello stesso istante ad equilibrare i colori di uno straordinario e vivo carattere.


Le lampare dei pescatori rasentano le ombre di queste catene montuose e ci riportano al quotidiano profumo del sale levantino, che sfianca le falesie dei porti dell’Adriatico, tra grotte e uliveti fumosi di foschia, quasi come se volessero inabbissare le reti in una radice comune ancora poco conosciuta.


I Salentini, anche per questo, scoprono troppe figure nel loro genoma, tanti incroci fra popoli che pare amplificassero la loro genesi tutte le volte che le cime albanesi si svestono ai riverberi del sole e proiettano le grandi porte dell’oriente. Sono gli stessi accessi che Otranto sbarrò dopo aver subito l’aggressione ottomana e che riapri poi con le risposte crociate della guerra santa come un rapido battito di ciglia.


Il Salento si può comprendere anche così, elevandosi tra le sue torri di avvistamento, sulle vedette delle difese aragonesi, sui campanili fastosi delle sue cattedrali, sui segreti dei suoi miti con i suoi alti ulivi antropomorfi, un’altra meraviglia del mondo che sopraggiunge inosservata a cui non si può più rinunciare.




I monti del Salento

…c’era una volta…

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SiaMadonna del Caravaggiomo a Napoli verso gli inizi del 1600. La città, quella vera brulica di commercio e di vita, è un ambiente malsano. Il centro è un dedalo di viuzze e strade strette chiuse da alti palazzi dove il sole riesce a malapena a passare.


Gli odori si accavallano e il tufo vesuviano assorbe tutti i vapori e i fumi annerendosi come il basolato. Tutto restituisce un’immagine di una metropoli mediterranea tetra, dove tutto sembra fagocitato dall’enorme massa popolare che infervora le strade. È in questa scena urbana che tra non molto camminerà uno dei geni dell’arte come Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, l’artista che lascerà il segno nella storia dell’arte più di chiunque altro; ed è sempre in questo l’ambiente che nasce e si forma Giovanbattista Basile, bellissima figura poco conosciuta nella letteratura italiana ma che paradossalmente vedrà la sua opera alla base di molti racconti letterari di ben più ampio respiro.


Nato a Napoli nel 1575 da famiglia di artisti e cortigiani divenne lui stesso uomo di corte oltre che di lettere. La sua giovinezza fu segnata dal servizio prestato, come volontario, nelle truppe della Repubblica Veneta, in quel periodo impegnata a fronteggiare il pericolo turco nel Mediterraneo.


Nel 1608 tornò a Napoli dove entrato in contatto con personalità in vista iniziò a frequentare la corte del principe di Stigliano, per tale iniziativa sembra che sia stato coadiuvato dalla sorella, già molto nota negli ambienti cortigiani poiché cantante.


In questi anni inizia la sua opera di letterato ma è con l’amicizia stretta con Giulio Cesare Cortese – suo maestro e compagno d’arte nel parlare napoletano – che riscopre e raffina la sua conoscenza della “lengua napoletana”.


Una volta consolidato il bagaglio linguistico della lingua napoletana, al seguito della sorella nel 1613 si trasferì a Mantova dove compose madrigali in onore dei Gonzaga. Il soggiorno lombardo durò poco tempo perché sempre nello stesso anno, per motivi di salute, fece rientro a Napoli dove si stabilì definitivamente. È qui che inizia la vera storia di Giovanbattista Basile.


Forse ispirato dalla vena artistica o dalla “foja” (vivacità) che alberga in tutti i momenti nei vicoli della città che scrive l’’opera che lo consegnerà definitivamente, in modo silenzioso, alla storia. L’opera sua più importante “lo Cunto de li cunti” fu pubblicata dopo la sua morte, lasciato dal Basile che era poco più di un manoscritto, la prima edizione fu pubblicata con l’aggiunta di un frontespizio sul quale era riportata la denominazione di “Pentamerone” sottotitolato con la didascalia “trattenimento de piccerille”.


L’opera si compone di cinquanta fiabe tutte di origine popolare, raccontante nel corso di cinque giorni (da cui il termine Pentamerone).


Tutti conosciamo e chissà quante volte è capitato di leggere o di raccontare la fiaba di Cenerentola di Charles Perrault ma pochi sanno che la storia era arrivata molto prima per via popolare a Basile, il quale la rielaborò proprio nel “lo Cunto de li cunti” e la trascrissedando il nome alla fiaba di “La gatta cenerentola”.


La storia è quella della ragazza sfortunata – Cenerentola appunto – che dopo tante ingiustizie subite dalla matrigna e dalle sorellastre alla fine grazie alla scarpa (chianella nella storia del Basile) diventerà sposa del principe azzurro. Persino Walt Disney, famoso autore di lungometraggi di cartoni animati, portò sul grande schermo – nel 1950 – la fiaba con il titolo americanizzato di “Cinderella”.


Ma questa non è l’unica fiaba del Basile a varcare i confini mediterranei ed europei.


Esiste sempre nel Pentamerone un’altra favola intitolata “Cagliuso”, che racconta la storia di un gatto saggio che aiuta in tutti i modi, un povero uomo a far fortuna. Questa fiaba diventerà nota dopo nel corso del 1700 con Johann Ludwig Tieck, con il titolo de “il gatto con gli stivali”.


L’opera di Giovanbattista Basile fu stroncata dalla critica letteraria settecentesca italiana, però qualche copia giunta in Francia fu tenuta in grande considerazione tanto da essere reinterpretata dal Perrault come abbiamo visto; fu solo nel 1754 “lo Cunto de li cunti” fu tradotto in italiano facendole però perdere quell’incisività originaria conferitagli dalla lingua napoletana. Un’altra traduzione fu eseguita integralmente nel 1846 da Jacob Grimm.



…c’era una volta…

mercoledì 18 giugno 2014

I numeri e i progetti di Samudaya

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samudaya copertina


Una soddisfazione! Dopo pochi mesi dal suo avvio, Samudaya vola ad oggi oltre le 30.000 letture.


Con 11.000 feed back dall’Italia e oltre 15.000 dagli States, ma anche con altrettanti dalla Cina, dall’Irlanda, dalla Svezia o da Taiwan la piccola barchetta di Samudaya naviga oltre gli oceani e raggiunge con la sua solita eleganza chi apprezza e condivide la nostra cultura mediterranea.la barchetta di samudaya


Quattro lettori ogni sessanta minuti che fanno una media di circa 100 letture giornaliere, possono degustare le notizie che il blog  propone nelle sue rubriche. Con  tali risultati Samudaya si conferma anche come un entusiasmante viaggio, un ponte che unisce spazi e popoli con le immagini, le parole, la musica, l’arte o la letteratura.


Il ritaglio culturale che si è definito alle “Cartoline da una Terra” è sempre più ricco ed desideroso di raggiungere altri utenti oltre che i più affezionati. Il progetto Samudaya migliora perciò la grafica e i colori, interagisce e risponde, commenta e propone, così come il gusto del suo lettore preferito.


Samudaya è il connubio di tante esperienze maturate nel campo dell’agricoltura, della biologia, dell’architettura, della filosofia e del benessere della persona fino a diventare, quasi per magia, una piccola isola, un giardino, una città o un fiore per tutti quelli che lo seguono a cui sentiamo di ringraziare col cuore.


Cogliamo l’occasione per salutare tutti i nostri conterranei che vivono e lavorano all’estero.



I numeri e i progetti di Samudaya

martedì 17 giugno 2014

Puglia, 21 giugno 2014: Masserie sotto le stelle

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Le masserie sotto le stelle (Ph M. Ciccarese) Le masserie sotto le stelle (Ph M. Ciccarese)


Lo sfondo blu notte che apre la rassegna ideata dalla Regione Puglia” Masserie sotto le stelle” quando si raggiunge il suo sito è il leitmotiv della lunga e geniale kermesse di eventi che lo accompagnano.


Quelle che scorrono intorno alla giornata del 21 giugno sono proprio le aziende agricole che hanno aderito all’iniziativa, molte delle quali a carattere didattico con il riconoscimento dalla stessa regione attraverso un iter molto interessante che prevede competenza, professionalità e trasparenza.


Essere fattoria didattica potrebbe essere quasi un disciplinare che rasenta la certificazione, un marchio che caratterizza un certo modo di produrre ecocompatibile e che riconosce i momenti e le attività che si susseguono intorno ai progetti che accompagnano le scuole di ogni ordine, i docenti e le famiglie.


Nel giorno che segna l’evento, la gente si tempra di buoni propositi e si tuffa nel cuore delle più belle masserie pugliesi, non solo per soggiornare e degustare le smisurate offerte proposte dagli organizzatori.


Tra un verso di asinello e di una capretta si potranno degustare le friselle appena sfornate, un ritaglio di ricottina dolce, una pendula di pomodori e nello stesso tempo seguire le proposte dei tanti laboratori culturali.


Niente è così vicino alla tradizione rurale quanto il respiro che si gode in una masseria. Ogni finestrella che si apre al ritmo della giornata contadina ha il sapore del passato, una dimostrazione diretta della mungitura, della tosatura, della raccolta o di un semplice itinerario tra muretti e ulivi secolari.


I programmi delle “Masserie sotto le stelle” saziano i visitatori, si articolano senza tregua fino a notte fonda, quando la luna e le stelle del solstizio raggiungono la quiete del bosco e degli ulivi.


Le aziende aderenti invitano. Samudaya partecipa.



Puglia, 21 giugno 2014: Masserie sotto le stelle

“L’Ulivo la Mezzaluna” ospite della Rassegna “Periferie Urbane”

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Mimmo Ciccarese LEgge brani del suo libro "L'ulivo e la Mezzaluna. (ph di R. Cirillo) Mimmo Ciccarese durante la lettura di brani del suo libro
“L’ulivo e la Mezzaluna.
(ph di R. Cirillo)


Il 9 giugno alle ore 19, presso la Galleria Maccagnani di Lecce, Mimmo Ciccarese ha presentato il Suo libro l’Ulivo e la Mezzaluna, nello spazio dedicato a “Sguardi di Letteratura” all’interno della manifestazione PERIFERIE URBANE dal BRASILE all’EUROPA: tutte le periferie si somigliano” organizzata da “L’Officina delle Parole” di Lecce.


La Manifestazione, nata da un’idea della giornalista e critico d’arte, nonché direttore editoriale de “L’Officina delle Parole”, Pompea Vergaro  e dell’antropologa e coordinatrice editoriale de “L’Officina delle Parole” Elisabetta Opasich.


La Manifestazione è stata promossa in partnership con il Comune e la Provincia di Lecce, la Regione Puglia, il Conservatorio “Tito Schipa” di Lecce e in collaborazione con CONFESERCENTI, Le Cave di Verdalia, Associazione Mfe-sez. di Lecce, PM Eventi e Corrieresalentino.it.


La prima edizione “a tema” della Rassegna, ha visto protagonisti, dal 2 al 12 giugno, artisti e scrittori affermati o esordienti, le cui opere sono state rigorosamente selezionate.


Per leggere l’articolo completo e vedere alcune foto della presentazione del libro, clicca sul link sottostante:


“L’Ulivo la Mezzaluna” ospite della Rassegna “Periferie Urbane


Per gentile concessione di Simbiosis Book


 



“L’Ulivo la Mezzaluna” ospite della Rassegna “Periferie Urbane”

lunedì 16 giugno 2014

Il Cardo mariano

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ph M.Ciccarese ph M.Ciccarese


Dall’aspetto non si può dire sia un fiore gentile quello che ritroviamo sotto le torri d’avvistamento accanto al mare, tra i lembi rocciosi, tra i ruderi, lungo le mulattiere, dove ama insinuare le sue radici. Il Cardo mariano, Silybum marianum, è un fiore aspro tutt’altro che cortese al tatto; per alcuni tratti, in fondo, potrebbe apparire molto elegante, come mi fa notare un’amica che li riconosce.


In effetti, l’astro solare dei suoi petali che impone il nome alla sua famiglia non sembra poi tanto ispido e austero, anzi, sembrerebbe più che apprezzato, almeno così cinguettano i loro affezionati amici, uccelli cardellini, che dei loro semi sono ghiotti.


Il fascino che desta l’interesse della pianta risiede proprio tra i suoi acheni, formazioni fruttifere setolose, ricche di flavoni utili per le loro proprietà epurative e lassative.


È nei giorni di San Giovanni che l’estratto del cardo dovrebbe essere più intenso e quando secondo alcuni, i suoi petali posti nell’acqua si ravvivano sotto il bagliore delle loro stelle significa che la passione per la persona amata si rafforza.


Per le antiche leggende, pare che se portati in un sacchetto di iuta o appesi al collo, avrebbero il potere di difendere i viaggiatori dagli spiriti maligni e dalle dentate dei serpenti velenosi.


Sarebbe stato perciò un manto di petali di cardo latteo maculati, quelli che avrebbero nascosto le tracce della Sacra Famiglia durante la fuga in Egitto per disorientare i segugi dei soldati romani.


Se per la tradizione cristiana il cardo rappresenta la sofferenza per i pugliesi, sarebbe all’opposto la forza che nutre, guarisce e ricaccia il dolore.


 


 


 



Il Cardo mariano

Per Amore, per Diletto e per Bellezza: la Donna nell’immaginario mediterraneo

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venere_botticelliMi ha sempre affascinato la figura della donna. Si dice che dietro un grande uomo ci sia sempre una grande donna, e credo che questa sia una verità alla quale il sesso forte non possa esimersi dal riconoscerlo. Nella storia è spesso la donna a scandire il tempo, perché è nella sua figura che l’immaginario collettivo impersona le legende più belle che vanno dalle fondazioni di città a quelle di spirito tutelare della casa.


La donna nella vita familiare, dimostra tutta la sua funzione oltre alla sua insostituibilità, la sua presenza può essere considerata sublime tanto che anticamente, si credeva che in essa vi fosse qualcosa di divino.


Alcune donne, nei popoli germanici, erano consultate perché ritenute fonti di saggezza e di sapere, però è nel Mediterraneo, che si narrano le storie più belle e affascinanti sulla loro figura: la Sibilla Cumana con la sua attività di oracolo ha predetto il destino di antichi uomini e guidato Enea nell’oltretomba, la sirena Partenope che innamoratasi di un greco (Ulisse?) si lasciò morire nella spiaggia sulla quale sarà fondata la città di Napoli e così si potrebbe continuare all’infinito.


Torniamo alla figura non divinizzata della donna. Nelle terre del sud dell’Italia come in molti paesi mediterranei, la donna era ed è considerata il fulcro centrale; sin da bambine sapevano sbrigare compiti che costituivano l’asse portante delle attività del nucleo famigliare come: impastare la farina per il pane, saper fare i letti, trasportare la legna e attingere l’acqua dal pozzo. Crescendo la sua adolescenza era spesso difficile. Il mutamento fisico e mentale avveniva spesso in ambienti familiarmente duri e culturalmente molto bassi, nei quali, le possibilità di riuscire a scambiare le sensazioni per i cambiamenti legati agli aspetti fisici erano praticamente nulle.


Anche se poco curata, la bellezza nelle donne mediterranee era spesso naturale mai artificiale, non avevano quasi mai bisogno di ricorrere a espedienti estetici per sedurre.


In Sicilia le donne portavano sempre le calze alte e vesti lunghe che le coprivano sino al collo, le maniche ricoprivano tutto il braccio ed eccezionalmente fino al gomito solo nei mesi in cui il caldo era insopportabile.


“Ciò che della donna non si vede rattrista il cuore” recitava un antico adagio, e suscitava scandalo una donna che mostrava qualche centimetro in più di pelle.


La “carne” attirava gli sguardi degli uomini e certe esposizioni – che oggi sono del tutto normali – al tempo, erano ritenute di dubbia moralità e comportavano il rischio di maligne dicerie sulla reputazione della povera malcapitata.


In alcune comunità pugliesi la donna che si ammirava spesso nello specchio era accusata per di frivolezza e poca serietà, perché lo specchio veniva considerato come uno strumento di seduzione.


Spesso però la cura e la bellezza per il proprio corpo prendeva il sopravvento e allora alcune donne – quelle più coraggiose – facevano ricorso alle antiche ricette tramandate da generazioni che prevedevano l’uso di cosmetici naturali; per eliminare il cattivo odore del sudore si usavano estratti di muschio, mentre per profumare i capelli, ricorrevano agli estratti del cardamono e per dargli maggiore lucentezza si applicavano impacchi d’olio d’oliva.


I lunghi capelli sciolti potevano significare avvenenza ma nei tempi antichi, il portare i capelli sciolti era segno di lutto, significava grande malinconia e profonda tristezza dello stato d’animo.


La capigliatura sovente poteva essere vista come “massa tentatrice”, conseguentemente i capelli erano raccolti in una o due trecce, raggruppate dietro la nuca e fermate da ferretti (tale acconciatura prendeva il nome di o’ tupp in Campania, Molise, Basilicata e Puglia settentrionale, lu tuppu in Calabria, Sicilia e Puglia meridionale).


La donna inoltre, per molti secoli è stata vittima di complessi pregiudizi legati alla sua fase mestruale, in tale periodo veniva considerata impura.


L’origine di tale credenza può essere attribuita al periodo della civiltà romana, nella “Storia naturale” di Plinio (Como, 23 – Stabia, 25 agosto 79) è scritto: “il contatto con una donna mestruata trasforma il vino in aceto, uccide le sementi, devasta i giardini, rende opachi gli specchi, fa arrugginire il ferro e il rame, fa morire le api, abortire le cavalle, e così via“.


In alcune comunità, la donna che attraversava tale fase veniva isolata perché considerata “infettata” da quel misterioso flusso al quale gli uomini guardavano spesso con paura.


Tale credenza è ancora presente in alcuni paesi del Magreb.


Alcune di queste superstizioni erano presenti anche nella parte meridionale della Puglia dove alle donne che erano nel ciclo mestruale, era vietato attingere acqua dal pozzo, impastare la farina, confezionare alimenti sott’olio, salare la carne o il formaggio e toccare le piante.


In questo breve excursus, sulla condizione della donna nel mediterraneo, non esce un quadro molto confortante…però se si pensa alla splendida immagine che ha dato la magnifica Ipazia (Alessandria d’Egitto 355/370-415) passata alla storia come la versione femminile di Galileo che fu uccisa da un gruppo di fanatici cristiani, ci si spiega perché l’uomo ancora oggi è ammaliato dalla figura femminile, senza la quale non sarebbe possibile immaginarne la sua esistenza.



Per Amore, per Diletto e per Bellezza: la Donna nell’immaginario mediterraneo

Il Fico e il Fiorone

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Ph M.Ciccarese Ph M.Ciccarese


La ciliegia sta al ciliegio come l’ albicocco all’albicocco. Se dovessimo invece tradurre questa frase in dialetto leccese, suonerebbe così: “la cirasa stae alla cirasa comu la spergia alla spergia”; ci accorgeremmo da subito che le coniugazioni femminili del frutto non sempre coincidono al nome del loro albero che lo origina.


Ad esempio, quando si parla di ciliegia, o “cirasa” del dialetto salentino, oltre al frutto si vuole indicare pure il suo albero. Per l’albero di fico vige simil principio, anche se, con le varianti botaniche in auge ci si potrebbe esprimere e barattare in tantissimi e altri suggestivi termini.


Una miriade di figure e varietà locali, quindi, con cui una lieta cittadina del sud Salento si celebra, in estate, con la trovata della “Festa de le fiche”, dove, chi trova il tempo di soffermarsi sull’argomento, tra i dibattiti scientifici e i proclami accanto ai bar, scoprirà, definitivamente, le differenze tra un fico e un caprifico oppure tra un fiorone e il frutto che lo segue.


Uno stornello salentino ripete ”l’auceddrhu quando pizzica la fica, la ucca soa la sente zzuccarata”! Bastano questi pochi e morbidi fraseggi per rendere l’idea della prospera allegria estiva tra i ficheti e le piazze delle città salentine che invitiamo a visitare.


Te santantoni lu culummu pe testimoni ( proverbio pugliese)


Oggi il salentino stornella intorno al suo frutto preferito, subito dopo il giorno di Sant’Antonio fino al solstizio d’estate,  scegliendo per tutti i migliori fioroni, sapendo molto bene che non si tratta di fichi propriamente detti.


I fioroni, nel Salento meglio conosciuti con il nome di “culummi”, sono quei frutti, o meglio siconi, che si formano quindi dalle gemme dell’autunno precedente. I culummi salentini avrebbero meno fascino rispetto ai fichi, ci sono delle differenze, come la tendenza a cadere a “piombo” e la loro facile deperibilità; è un frutto perciò non proprio adatto a essere conservato che dipende molto dall’impollinazione (lu culummu cate a chiummu e la fica se mmarita).


Il fiorone è piuttosto sensibile e delicato, quindi, da gustare subito quando possibile e prima del puntuale arrivo delle gazze; spesso si attesta purtroppo, come un frutto su cui neppure gli altri uccelli riescono a discernerne il giorno esatto della maturazione a causa della presenza di funghi e insetti che la intralciano.


Forse per questi motivi che il “culummu salentino” è considerato da molti come un soggetto poltrone e svogliato e piuttosto trascurato quando giunge nel periodo in cui le campagne e i mercati esplodono di altri frutti più ricercati.


Chi non discrimina e apprezza il gusto del fiorone, comprende, però le sue virtù e le parifica a quelle degli altri frutti. Chi invece non ha ancora percepito il suo valore dopo l’assaggio provi pure a chiedere alle abilità maturate da Samudaya in questo settore che è sempre disposto a condividerle.


 


 


 


 


 


 


 



Il Fico e il Fiorone

Agricoltura, agricultura

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Ph M.Ciccarese Ph M.Ciccarese


Quante agricolture abbiamo? L’agricoltura sostenibile, integrata, naturale e sociale, organica, biologica e biodinamica, sinergica e rigenerativa; poi abbiamo l’agricoltura urbana, spirituale, verticale e vegana, quella itinerante e quella quantistica.


Quando si tratta di agricolture alternative, spunta sempre un nuovo “ribelle” che idealizza o scopre un rivoluzionario metodo per produrre, lo adotta, lo fa talmente suo che diventa un credo da diffondere, una comunità, una moda o un esempio di lotta alle multinazionali che decidono sulla sovranità alimentare, agli eccessi di burocrazia, ai marchi o alla schiavitù tra i campi.


Allora se queste forme di rinnovamento servono per renderci felici, ben vengano, avremo tante opportunità, strategie e aperture per avere altro cibo, anche se, in molti casi, a rifletterci bene, si riscontra poi con meraviglia che i progenitori contadini le avevano forse già sperimentate con pura semplicità molti secoli prima. Ci sarebbe quindi poco sentore di novità tra le molteplici forme di agricoltura?


Non provate a contraddire questo o quel modo di trapiantare i peperoni, perché ciò diventa spesso una vera e propria filosofia che a volte si arzigogola e si contorce, da difendere a denti stretti. Molto spesso si tratta di agricolture rappezzate provenienti da stralci di culture di terre lontane che non hanno niente a che fare con il nostro habitat mediterraneo, quindi irrazionali; in questi casi occorrerebbe anche un po’ di sana umiltà prima di fracassare i sistemi tradizionali dell’agricoltura dei nostri avi.


Si cercano soluzioni, nuovi alimenti da prodigiose virtù, rovistando tra i semi antichi di grano, varietà autoctone, passate nel dimenticatoio dell’agricoltura intensiva, qualche volta improvvisandosi esperti coltivatori, senza conoscere la fotosintesi, sognando una resa sicura; quella semina esemplare diventa un evento, un’affermazione, da ribadire all’opinione pubblica, un sistema per differenziarsi tra gli altri contadini, affermare la propria r-esistenza rurale con l’unicità della loro orgogliosa scelta.


Chi nasce da una cultura rurale sa molto bene che per produrre occorre pazienza, cura, sacrificio ed impegno. Il vero agricoltore riconosce la possibilità d’insuccesso e silenziosamente, seppur con sofferenza, si rassegna ad una gelata primaverile, solidarizza, si riunisce, si rimbocca le maniche, impugna la falce e riprende da zero il suo lavoro senza mai smarrirsi troppo tra le ciance.

Samudaya è preparata per parlarvi di agricoltura. Fate pure qui le vostre proposte o domande.



Agricoltura, agricultura

giovedì 12 giugno 2014

La bestemmia nel Mediterraneo

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Luca Signorelli: Il Giudizio Universale Luca Signorelli: Il Giudizio Universale


La condizione di avere un mare a poca distanza ha fatto in modo che nell’immaginario collettivo sia per il popolo italiano che per tutti gli altri paesi che si affacciano nel mar Mediterraneo, si creasse un’immagine di trasparenza e solarità.


In parte questo è vero, probabilmente il motivo sta nel fatto che in questo specchio di mare coesistono molte espressioni che accomunano i popoli; le alte scogliere del Mediterraneo proteggono un entroterra ricco di storia che oltre a civiltà ha visto la nascita di religioni che vedono milioni di fedeli al seguito, religioni di ampio respiro quindi come quella cristiana, ortodossa, islamica ed ebrea.


Ciò ha portato inesorabilmente a far diventare il Mediterraneo la culla delle religioni oltre che della cultura.


Il popoli interessati professano con molta serietà e dedizione le regole dettate dalla propria dottrina, digiuni, preghiere e ricorrenze sono stati annunciati per essere rispettati e come in ogni credo e in ogni popolo che si rispetti, si presenta il risvolto della medaglia, in questo caso si indentifica con ciò che sta all’opposto della retta via dettata al credente, trovando espressione nella forma più peccaminosa e irriverente che può essere riassunta in una sola parola: “bestemmia”.


Questa espressione blasfema, così spiccatamente incisiva consiste in una vera e propria imprecazione diretta verso ciò che è ultraterreno.


La cosa incuriosisce; non è facile trovare le soluzioni o le testimonanze che possano darci spiegazione su come e perché si imprechi.


Possiamo provare a rispondere facendo notare che l’uomo ha sempre attribuito – da quando ne ha preso coscienza – grande importanza alla parola intesa proprio come “verbo”, nella funzione più appropriata che ha nel descrivere e indicare tutto ciò che lo circonda, quindi, la parola pronunciata sotto forma di “imprecazione” riesce a restituire un’immagine molto precisa del momento di disagio che si è vissuto e che trova come unica via di sfogo l’offesa nei confronti del sacro.


Nell’antichità le pene per chi cadeva in questo tipo di trasgressione, erano molto severe e a volte prevedevano perfino la condanna a morte per lapidazione.


Ma vediamo brevemente come veniva considerata la bestemmia nella cultura mediterranea.


Gli antichi Greci ritenevano chi bestemmiava come un trasgressore delle leggi della Polis con il risultato minimo dell’emarginazione dalla società; i praticanti ebrei si reputavano molto offesi se udivano delle bestemmie e arrivavano al punto di stracciarsi i vestiti da dosso in presenza di coloro che imprecavano; nel medioevo in Francia si costringeva il bestemmiatore ad immergersi in pozze fangose perché ritenuto immondo e una volta uscito costretto a lavarsi per purificarsi; paradossalmente non sono note le imprecazioni arabe, ma si suppone che ce ne siano e che non siano da meno di quelle dei cristiani.


Come in tutti i comportamenti umani c’è sempre qualcosa o qualcuno che riesce a primeggiare e in questa originale “classifica” – per il mondo occidentale – storicamente questo primato sembra spetti alle imprecazioni turche.


Viene da sé – ed è bene dirlo – che il popolo turco è da considerare alla stessa stregua di quello cristiano e la ragione di questa sua peculiarità è da ricercare negli scontri che spesso le due culture – quella cristiana e quella ottomana – hanno avuto per far prevalere la propria supremazia nel Mediterraneo.


Gli interessi economici erano troppi e importanti e conseguentemente i punti di contatto erano frizioni mai sopite che spesso si trasformavano in scontri bellici; sovente alla nomea di dissacratori si accompagnavano vere e proprie leggende che portavano inesorabilmente a segnare una popolazione, in questo caso quella turca, come un vero pericolo per il mondo cristiano, frasi come: “Mamma li turchi” – oppure imprecazioni irripetibili che hanno portato alla celebre frase:”bestemmiare come un turco”, ne costituiscono un vivido esempio.


Ma per meglio capire i modi della bestemmia nel Mediterraneo, conviene leggere ciò che scrive lo slavista Predrag Matvejević nel saggio “Breviario mediterraneo” (Garzanti, Milano 1991), il quale così ci racconta l’imprecazione dei tempi moderni nel Mediterraneo: “i pescatori sono spesso rappresentati con le facce rugose, come scavate dalla pioggia e dal sole, dal vento e dalle onde, ma si può quasi affermare che non ci mostrano mai le loro mani incallite dal sale e dalle reti, dalle funi e dai remi. I veri pescatori bestemmiano, ma non rubano. Si adirano e litigano (a causa del maltempo, della pesca scarsa, dell’incapacità degli aiutanti), ma non danno addosso l’uno all’altro: non si picchiano come sanno fare talvolta i lavoratori portuali o i semplici contadini. […]


Le bestemmie mediterranee sono diverse da quelle del continente. In certe lingue vengono lanciate e gridate con l’aiuto del verbo copulativo, dell’atto sessuale lascivo con la divinità, i santi o i congiunti: così bestemmiano, ad esempio, i Turchi, i Greci odierni, gli Slavi del sud ed altri ancora. Da altre parti, senza questo verbo ausiliario, gli dèi, i santi e i congiunti di entrambi i sessi vengono messi in relazione con animali come possono essere il cane, il porco (la scrofa), il caprone, l’asino o la cagna. […] Nell’una e nell’altra categoria vengono evidenziati gli organi della procreazione e le loro funzioni, nonché determinati aggettivi, scatologici, coprolalici o per converso sacramentali. La passionalità mediterranea introduce sia nelle più facili bestemmie popolari sia in quelle degne dell’inferno, una parte più o meno grande del corpo, talvolta il corpo intero, indicandolo o offrendolo” […]


Le imprecazioni nel Mediterraneo risultano, alla luce dei fatti, ancora più incisive proprio per la passionalità che caratterizza le sue genti perché il bacino del Mediterraneo non è solo Europa, ma è anche Africa e Asia, dove ogni popolo è un unicum con l’altro e perché citando ancora Matvejević: l’Atlantico o il Pacifico sono i mari delle distanze, il Mediterraneo è il mare della vicinanza, l’Adriatico è il mare dell’intimità



La bestemmia nel Mediterraneo

mercoledì 11 giugno 2014

Il Fico e il Fiorone

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ph di M.Ciccarese ph di M.Ciccarese


Le ciliegie stanno ai ciliegi come le albicocche agli albicocchi. Se dovessimo invece tradurre questa frase in dialetto leccese, suonerebbe così “la cirasa stae alla cirasa comu la spergia alla spergia”; ci accorgeremmo da subito che le coniugazioni dei sostantivi maschili e femminili non sempre coincidono al nome della loro pianta.


Ad esempio, quando si parla di ciliegia, o “cirasa” del dialetto salentino, oltre al frutto si vuole indicare pure il suo albero. Per l’albero di fico vige simile principio, anche se, con le varianti botaniche in auge ci si potrebbe esprimere e barattare in tantissimi e altri suggestivi termini.


Una miriade di figure e varietà locali, quindi, con cui una lieta cittadina del sud Salento si celebra, in estate, con la trovata della “Festa de le fiche”, dove, chi trova il tempo di soffermarsi sull’argomento, tra i dibattiti scientifici e i proclami accanto ai bar, scoprirà, definitivamente, le differenze tra un fico e un caprifico oppure tra un fiorone e il frutto che lo segue.


Uno stornello salentino ripete ”l’auceddrhu quando pizzica la fica, la ucca soa la sente zzuccarata”! Bastano questi pochi e morbidi fraseggi per rendere l’idea della prospera allegria estiva tra i ficheti e le piazze delle città salentine che invitiamo a visitare.


Te santantoni lu culummu pe testimoni (proverbio pugliese)


Oggi il salentino stornella intorno al suo frutto preferito del solstizio d’estate, subito dopo il giorno di Sant’Antonio, con la gentilezza che merita, scegliendo per tutti i migliori fioroni, sapendo molto bene che non si tratta di fichi propriamente detti.


I fioroni, nel Salento meglio conosciuti con il nome di “culummi”, sono quei frutti, chiamati siconi, che si formano quindi dalle gemme dell’autunno precedente. I culummi salentini avrebbero meno fascino rispetto ai fichi, ci sono delle differenze, come la tendenza a cadere a piombo e la loro facile deperibilità; è un frutto perciò non proprio adatto a essere conservato che dipende molto dall’impollinazione (lu culummu cate a chiummu e la fica se mmarita).


Il fiorone è piuttosto sensibile e delicato, quindi, da gustare subito quando possibile e prima del puntuale arrivo delle gazze; spesso si attesta purtroppo, come un frutto su cui neppure gli altri uccelli riescono a discernerne il giorno esatto della maturazione a causa della presenza di funghi e insetti che la intralciano.


Forse per questi motivi che il “culummu salentino” è considerato da molti come un soggetto poltrone e svogliato e piuttosto trascurato quando giunge nel periodo in cui le campagne e i mercati esplodono di altri frutti più maturi e ricercati.


Chi non discrimina e apprezza il gusto del fiorone, comprende, però le sue virtù e le parifica a quelle degli altri frutti. Chi invece non ha ancora percepito il suo valore dopo l’assaggio provi pure a chiedere alle abilità maturate da Samudaya in questo settore che è sempre disposto a condividerle.

ph di M.Ciccarese ph di M.Ciccarese



Il Fico e il Fiorone