sabato 27 dicembre 2014

La”mantagnata” Resistenza del Sud

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barometroC’è un angolo dell’estremo meridione mediterraneo, dove le giornate invernali sono spesso assolate, quasi mai uggiose. Questa terra luminosa si chiama Salento. I salentini non sono abituati a temperature rigide, penano, piuttosto, l’azione estrema della tramontana pungente e quella afosa dello scirocco.


Le correnti, qui, le distingui subito, anche se cambiano senza preavviso. Nel Salento, se cerchi bene, per ogni sua piccola comunità, puoi reperire una “rosa dei venti” che ti aiuta ad prevedere il tempo e ti indica uno spazio vitale per farti ritrovare.


Se il sole è così robusto, i salentini, si rifugiano, di solito, sotto l’ombra di un ulivo o dietro il calore di un qualsiasi  fortilizio, di ciò che per loro si usa definire come mantagnata. Quell’atto di arroccarsi sarebbe quasi un atavico e personale rituale simbolico e spirituale, un modo come tanti per proteggersi e difendersi da ogni avversità, di qualunque natura essa fosse.


Allora ti spieghi perché nel Salento ritrovi così tante torri costiere, i castelli, le chiese, le masserie e i villaggi rupestri pulsanti di storia, dove ti fermi un istante, per riflettere al riparo e al sicuro o per intendere un popolo e la sua arcaica presenza.



La”mantagnata” Resistenza del Sud

venerdì 26 dicembre 2014

50.000 lettori: grazie!

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samudaya copertinaUna soddisfazione! Dopo pochi mesi dal suo avvio, Samudaya raggiunge le 50.000 letture.


Con 16.000 feed back dall’Italia e quasi 23.000 dagli States, ma anche con altrettanti dalla Cina, dalla Federazione Russa, dal Giappone, dall’Irlanda, dalla Svezia o da Taiwan, la piccola barchetta di Samudaya naviga oltre gli oceani e raggiunge con la sua solita eleganza chi apprezza e condivide la nostra cultura mediterrala barchetta di samudayanea.


Quattro lettori ogni sessanta minuti che fanno una media di circa 100 letture giornaliere, possono degustare le notizie che il webblog propone nelle sue rubriche. Con  tali risultati Samudaya si conferma anche come un entusiasmante viaggio, un ponte che unisce spazi e popoli attraverso le immagini, le parole, la musica, l’arte o la letteratura.


Il ritaglio culturale che si è definito con le “Cartoline da una Terra” è sempre più ricco ed desideroso di raggiungere altri utenti oltre che i più affezionati. Il progetto Samudaya migliora perciò la grafica e i colori, interagisce e risponde, commenta e propone, per esaudire il gusto del suo lettore preferito.


Samudaya è il connubio di tante esperienze maturate nel campo dell’agricoltura, della biologia, dell’architettura, della filosofia e del benessere della persona fino a diventare, quasi per magia, una piccola isola, un giardino, una città o un fiore per tutti quelli che lo seguono a cui sentiamo di ringraziare con vero cuore.


Cogliamo l’occasione per salutare e ringraziare tutti i nostri conterranei che vivono e lavorano all’estero.



50.000 lettori: grazie!

venerdì 19 dicembre 2014

L’albero di Yule

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luci di natalePer le tradizioni precristiane dell’emisfero settentrionale, quali quelle celtiche e germaniche, la festa del solstizio d’inverno, chiamata Yule doveva essere un giorno veramente speciale. Ogni anno, prima dell’avvento cristiano, questi popoli riservavano questo periodo alle loro divinità. Lo yule era uno degli otto giorni solari che prendeva il nome probabilmente da Hiol (ruota) per il semplice fatto che nel solstizio d’inverno il circolo dell’anno si scopre al suo estremo inferiore e inizia a risalire sulla linea dell’orizzonte. Un evento che dopo il cristianesimo si ripresenta, ancora oggi, con tutta la sua energia. Per i linguisti il nome dato dai germanici a quel 21 dicembre sembra avesse origini indo europee, forse persiane, un nome che per islandesi e finnici indicherebbe anche il Natale.


Fu Gregorio Magno al tempo della conversione cristiana a surrogare per i popoli nordici il termine Yule con quello di Natale cercando di conservare integre molte loro tradizioni originarie quale l’uso decorativo del vischio o dell’agrifoglio. Con tale ricorrenza gli alberi riprendono la loro importanza in questo prezioso periodo, come vitalità simbolica di fertilità, unione, persistenza e lungimiranza.


L’albero di yule si ripresentava anche come l’albero della fortuna e della ricchezza e conserva ancora analogie con l’albero cosmico di Ygdrasill che i celti divinizzavano insieme al loro dio Odino.  Non è un caso che il dio Odino fosse raffigurato come un uomo barbuto e giudizioso disposto a ricambiare di doni il suo popolo se esso avesse nutrito il suo cavallo alato.


Una figura analoga certamente al nostro San Nicola Vescovo e poi al paffuto Babbo Natale che all’opposto provvede personalmente lui a sfamare le sue renne. Un albero su cui i popoli pagani potessero appendere le loro campane che al loro movimento avrebbero risvegliato e richiamato gli spiriti e una stella a cinque punte sulla sua cima più alta, a rappresentare il pentagramma dei cinque elementi naturali.


Per altre tradizioni, nel giorno dello Yule, si commemora la fine del re Agrifoglio pianta simbolica dell’anno appena albero di Nataletrascorso per far posto a quello del re Quercia che esprime l’anno nuovo e decreta l’ascesa solare. Con questo passaggio di regni dunque,  lo Yule diventa un giorno speciale, così carico di simboli e magie tanto che nelle feste romane del Sol Invictus si usava vegliare dal tramonto all’alba seguente per accertarsi che il sole riapparisse ancora.


Un rito così rilevante anche per le donne celtiche che attendevano nell’oscurità l’arrivo dei loro uomini a portare la luce delle fiaccole incerate su sacri ceppi di quercia o frassino utile per accendere un grande fuoco simbolo di morte, trasformazione e rinascita allo stesso tempo.


Quello che più sorprende è che per ogni popolo, sia fosse, druidico, celtico, sassone, gaelico, slavo greco o romano questo giorno rappresentava la nascita di una divinità associata di solito al culto del sole, alla giustizia e al bene.


 



L’albero di Yule

martedì 16 dicembre 2014

L'amaro della cicoria selvatica

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ph m.ciccarese ph m.ciccarese


Si riporta sulla tavola il gusto un po’ amaro della cicoria selvatica già lessata che l’olio novello amplifica senza disturbare su cui si chiede il permesso di salare prima di arrotolarla tra la forchetta.


La cicoria si raccoglie tra le terre incolte non contaminate, con una semplice torsione della lama sul colletto della radice che si attacca alle foglie e si ripone nel solito sacchetto occasionale.


La raccolta spontanea quando rispetta i luoghi è un esercizio utile per i cercatori, ti fa discernere le specie che gli somigliano, quelle non eduli, che il non botanico assegna con un nome volgare e cangiante.


Il suo etimo viene dall’arabo o dal greco antico, appartiene alla famiglia delle composite ma si è sempre raccolta perché contiene virtù inaspettate in grado di regolare molte funzioni del nostro organismo.


L’amaro della verdura appena raccolta sembra sia dovuto alla presenza della cicorina un glucoside che potrebbe riattizzare una nuova passione per chi si sorregge con le erbe.


Le radici della Cichorium Intybus seccate e tostate, si surrogavano al caffè un po’ come facevano i generali prussiani prima della battaglia.


 



L'amaro della cicoria selvatica

giovedì 11 dicembre 2014

La nave va mentre la fava si cuoce

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fave decorticateLa prima azione da fare per la preparazione delle faenette (purea di fave) e di ammollare le fave secche decorticate in almeno due litri d’acqua mezza giornata prima della messa a cottura. Si preferisce pianificarle la sera perché restino tutta la notte a bagno in acqua tiepida. Ma cosa succede nel frattempo alle nostre fave mentre noi dormiamo? Non sempre i risultati di un ammollo prolungato sono soddisfacenti.


Come ogni seme di legume commestibile la fava contiene amido e proteine. L’amido nel seme, addensato sotto forma di grani, si rigonfia d’acqua, durante la cottura si rapprende e diventa una massa pastosa e tenera.


La cottura non deve essere rapida, perché l’amido potrebbe cuocersi quando non è completamente saturo d’acqua e la nostra purea si compatta rovinosamente. Il lungo ammollo e il fuoco lento in pentole di terracotta, dovrebbero perciò offrire ottimi risultati.


Il segreto della nonnina è di non utilizzare durante la cottura nessun ingrediente, di aggiungervi a piacere spezie, cipolla e aglio solo alla fine qualche ora prima di servire. Si può aggiungere una patata sbucciata varietà Siegliende di Galatina, possibilmente, e mescolare con amorevole energia fino a che la nostra purea non assume un colorito dorato e una certa densità. Inutile dirvi che l’aggiunta di olio extravergine d’oliva, o di peperoncino per chi lo gradisce, completa il nostro contorno.


Scriveteci se queste informazioni sono state di vostro gradimento!



La nave va mentre la fava si cuoce

domenica 7 dicembre 2014

Te la Mmaculata la prima ffrizzulata, te la Cannilora l'urtima frizzola

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PittuleQuelle che i salentini chiamano pittule corrisponderebbero agli zippuli calabresi e ai patt’ del materano. In ogni caso, le accomunano la forma, la preparazione e gli ingredienti, l’importante non chiamarle frittelle. Sono piuttosto una merenda da antipasto meridionale, forse d’origine araba.


Queste palline di pasta lievitata sono devolute ad friggere nell’olio d’oliva prima di passare sul nostro palato. L’impasto è senza dubbio una base per la creatività dei cucinieri che sbrigliano il loro estro dai giorni della seconda decade di dicembre fino a quelli della candelora. Basta qualche pittula e un buon bicchiere di compagnia per passare una serata, soprattutto se farcita con cavoli mezzi cotti, pomodori secchi e olive nere denocciolate.


Ad ogni popolo, dunque, la sua pittula dorata da artigliare lì per lì, ancora calda per non perdere la priorità acquisita, prima che diventi fredda e gommosa. A Brindisi, le pittulicchie, si preparano la vigilia dell’Immacolata (8 dicembre), nel Salento la prima frittura cade insieme al vino novello l’undici di San Martino. I  tarantini amano mangiarle cosparse di grani di zucchero, vincotto di fichi e miele, ma in Calabria si fa di peggio intingendola nella focosa nduja.


“Te minte quatthru pittule intru allu piattu” (ti pone quattro pittule nel piatto) è un detto riferito a chi parla più del dovuto e a sproposito facendoti toccare il cielo, con esaltato ottimismo e poi nel suo quotidiano non concretizza alcunché buono. La massima si riferisce alla pittula proprio per la reperibilità dei suoi ingredienti, farina, lievito e acqua e la sua preparazione. Nonostante ciò sembra tutt’altro che facile da realizzare



Te la Mmaculata la prima ffrizzulata, te la Cannilora l'urtima frizzola

domenica 30 novembre 2014

Li tiaulicchi Scattarisciati

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peperonciniA volte non immaginiamo proprio come un ortaggio semplice possa diventare un contorno squisito. Basta solo avere un po’ di buona volontà e insieme al pomodoro, il peperoncino, che i salentini chiamano “tiaulicchiu”, finisce saltato in padella nell’olio d’oliva da Cellina di Nardò.


Il piccante su piccante, dunque, potenziato da una puccia rossa con le olive nere, uno spicchio di pecorino stagionato, da latte di pecora Moscia leccese, e un buon bicchiere di Negroamaro, di quello vigoroso, a volte, è sufficiente per sentirsi felice monarca per una sera.


Cenavano così dal tempo del Regno delle Due Sicilie, o forse ancor prima, le comunità rurali del Salento, ilare penisola e robusto torace del meridione pugliese.


Forse è il caso di dirvi come si prepara” lu tialicchiu scattarisciatu”. Prima è bene saper che il termine “scattarisciare” nel dialetto salentino equivale alla definizione italiota di scoppiare e saltare contemporaneamente. Quel lieve scoppiettio necessario che decreta la cottura definitiva del “tiaulicchiu” è sostanziale, sarebbe l’inizio dell’apoteosi simile a quella che ricorda l’antico detto: “La morte de lu purpu è la cipuddrha” (la cottura risolutiva del polpo è la cipolla).


Allora prendete qualche pomodoro che vira al rosso, leggermente acerbo, la via di mezzo che si sposa con il peperoncino rosso splendente, un po’ di sale, magari un po’ di pepe o di basilico. In una padella versare l’olio, e quando è ben rovente, senza farlo sfumare, immergeteci i cornettini piccanti fino a quando il loro scoppiettio sembra una sommossa. Nello stesso olio friggete i pomodori. Scolate l’olio in eccesso unite il resto disponibile. Cottura un quarto d’ora circa. Semplicissimo.



Li tiaulicchi Scattarisciati

domenica 23 novembre 2014

Tre su le cose ca te nnuticano lu core: Le meddrhe, le cutugne e le malu parole

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Tre su le cose ca te nnuticano lu core: Le meddrhe, le cutugne e le malu parole (dittero salentino),Trad.:ci son tre cose che ti fan venire un groppo: le nespole, le mele cotogne e le cattive parole.


Mespilus germanica è il nome latino delle meddrhe salentine. In italiano sarebbero le nespole comuni e non quelle giapponesi con cui condividono solo la famiglia.


Le nespole comuni sono difficili da deglutire per la durezza e il sapore astringente della loro polpa che è al pari di quella delle cotogne. Questi frutti appena raccolti nel tardo autunno dovranno essere perciò “ammezzite” nella paglia, o comunque in un ambiente secco e ventilato.


Con l’ammezzimento s’avviano trasformazioni enzimatiche, di natura fermentativa, che le inducono a virare il colore della loro buccia bruna dal chiaro allo scuro. Quando ci sembrano rammollite al tatto ed emanano un gradevole profumo, significa che sono pronte per essere consumate. Poppandone la polpa, dopo aver tolto il picciolo, poi, dovrebbero restare i semi duri come pietre non digeribili.


I greci le consacravano al dio Crono e le utilizzavano come arma segreta contro le negromanzie degli stregoni. In ogni caso, la vera grande magia che offre questo frutto è quando si gusta sotto forma di dessert o marmellata.


 


 



Tre su le cose ca te nnuticano lu core: Le meddrhe, le cutugne e le malu parole

giovedì 20 novembre 2014

il 21 novembre è la Giornata nazionale degli Alberi

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Ph. di Mimmo Ciccarese Ph. di Mimmo Ciccarese


Uno dei culti più remoti dell’umanità è proprio la festa dell’albero. In Italia oggi si ricorda questo legame celebrandolo il 21 novembre. Con tal evento si celebra non solo la cultura ma anche il risveglio sociale ed ecologico di un popolo.


Anche tra i primi popoli, già conosciuti per il loro inizio democratico e civile, l’albero era considerato un elemento divino, un monumento da benedire, un punto di riferimento oltre che una fonte di nutrimento.


Tra i precursori della festa ci furono i romani con il culto dell’Arbor Intrat o della Festa Lucaria di luglio, poi i greci e forse ancora prima i popoli celtici e del nord dell’Europa con quello di Odino.


Per ogni popolo si è sempre assegnato un albero, per ogni radice, quindi, un parto, un simbolo, un’essenza o un ricordo. 


Si dice che a vegliare su ogni residente in Puglia ci siano almeno quattro olivi secolari con tutto il loro valore. Per i pugliesi attraversare le loro forme o le loro cavità equivale a un buon auspicio, un rituale che serve ad assorbire tutta la loro energia utile per difendersi e scongiurare ed esorcizzare le cattive intenzioni.   


Eppure d queste relazioni se ne parla davvero poco. La simbiosi uomo-albero è un dialogo ormai quasi ignorato, ce ne accorgiamo sempre e solo dopo la sua mancanza.


Qualcuno, all’opposto, festeggia l’abbattimento di un albero. Per la cronaca, sembrerebbe quasi un rituale, una consuetudine, non tanto propiziatoria, quella di sopprimere essenze vegetali, a volte perfino monumentali, per concedere il posto ad altri spazi artificiali. Spesso si fa senza parsimonia, con palese cupidigia, per smania di potere, attraverso decisioni superficiali o irrazionali.


L’educazione per il bene degli alberi parte sempre in modo corretto tra i primi insegnamenti, ma molte scuole non hanno alberi o se l’hanno sono spesso sottovalutati o trascurati


In Italia, la festa degli alberi non è una novità. Si celebra fin dalla fine dell’ottocento, fu istituzionalizzata con la legge forestale del primo ventennio del novecento, poi subito dopo la seconda guerra mondiale fino al 1979 quando fu demandata alle regioni. La legge n. 113 del 29/01/92 (legge Rutelli) obbliga ogni Comune alla messa a dimora di un albero per ogni neonato subito dopo la sua annotazione anagrafica. Una legge più che civile che purtroppo non ha trovato tantissimi riscontri e applicazioni.

Oggi è regolamentata con la legge del 14/10/2013 nell’art. uno si parla di norme che regolano la giornata nazionale degli alberi: ”La Repubblica riconosce il 21 novembre quale «Giornata nazionale degli alberi» al fine di perseguire, attraverso la valorizzazione dell’ambiente e del patrimonio arboreo e boschivo, l’attuazione del protocollo di Kyoto, ratificato ai sensi della legge 1º giugno  2002, n. 120, e le politiche di riduzione delle emissioni, la prevenzione del  dissesto  idrogeologico  e   la   protezione   del   suolo, il miglioramento  della  qualità  dell’aria,  la  valorizzazione  delle tradizioni legate all’albero nella cultura italiana e la  vivibilità degli insediamenti urbani”.


E allora ecco che il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del territorio e del mare realizza in collaborazione con gli enti preposti alla formazione, quali università, scuole di ogni ordine e grado eventi ed iniziative promozionali per far sapere del nostro sistema boschivo, per definire meglio i termini della tutela dell’ecosistema, il rispetto per le essenze arboree, gli equilibri tra le comunità biotiche, l’educazione civica e ambientale, per “stimolare un comportamento quotidiano sostenibile” affinché la biodiversità sia conservata e avvalendosi delle risorse  umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza  pubblica”.


Lo stesso regolamento riporta: “In  occasione  della celebrazione della Giornata le istituzioni scolastiche curano, in collaborazione con i comuni e le regioni e con il Corpo forestale dello Stato, la messa  a  dimora in aree pubbliche, individuate d’intesa con ciascun comune, di piantine di specie autoctone, anche messe a disposizione dai vivai  forestali regionali, preferibilmente di provenienza locale, con particolare riferimento alle varietà tradizionali dell’ambiente italiano….”.


La celebrazione del 21 novembre eredita per questo motivo quella coscienza ambientale, ecologica e civica. È uno stimolo ed un’occasione per gli italiani per compiere una buona azione, per accrescere il patrimonio arboreo o del bosco, per difenderlo e restituirlo alle comunità.


Dopo l’entrata in vigore del protocollo di Kyoto, le essenze vegetali di ogni specie, quali nostre utili alleate per mitigare gli effetti del gas serra, saranno valorizzate proprio così, con una semina quotidiana per ogni tipo di habitat. Quale migliore strategia? Piantare un albero è ormai diventato una necessita.



il 21 novembre è la Giornata nazionale degli Alberi

venerdì 14 novembre 2014

L’Alberello Pugliese, identità vitivinicola

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ph. Mimmo Ciccarese ph. Mimmo Ciccarese


Le nostre viti ripiegate sui brevi tramonti di novembre indossano ancora il calore delle loro vivaci foglie che quest’anno non hanno proprio intenzione di cadere proponendo un’altra entusiasmante immagine agli appassionati del buon vino.


Sono due aspri toraci nodosi di legno avviticchiati senza governo tra gli spazi rurali delle nostre più tradizionali vigne che aiutano a contare solo tre gemme per branca su ogni sperone, giusto quelle che bastano per la buona produzione d’una particolare forma d’allevamento che tutti chiamano alberello pugliese.


Un portamento tipico così vetusto che se ne potrebbe ripercorrere l’età semplicemente misurando i tagli d’ogni invernata lungo ogni sua freccia legnosa; un’adozione che risale alla seconda metà dell’800 quando s’introdussero in Europa le viti selvatiche americane resistenti alla fillossera, un genere d’insetto appartenente ai Rincoti omotteri che in quel periodo aveva falciato troppi vigneti.


È un vigneto che nonostante computi ormai un bel numero d’assenze sul suo sesto d’impianto, quasi irregolare, garantisce e ributta ancora tralci così vigorosi che giungono a sfregarsi a vicenda ed esprimere con il pianto linfatico un evidente stato di sviluppo e di generosità.


Per il viticoltore è giunto quasi il tempo di potare, di razionalizzare la crescita d’ogni alberello e di ravvivare sulle produzioni fruttifere i futuri scambi tra chioma e radice che assicurano il dinamismo e la nobiltà del suo lavoro.


Si pota per separare o scegliere le gemme migliori, ancora dormienti, non rigonfie di buone promesse, per riavviare la direzione del fluido carico di sali minerali provenienti dall’assorbimento radicale e segnare un momento autunnale importante per l’identità vitivinicola del Mezzogiorno.


 



L’Alberello Pugliese, identità vitivinicola

venerdì 7 novembre 2014

L'albero dell'Acacia immortale

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acaciaLe acacie sono un genere di piante appartenenti alla famiglia delle Mimosacea  ma non sono le mimose propriamente dette. Nei nostri habitat tra le piante più note di questo genere si riferisce alla specie Robinia pseudoacacia con cui non hanno niente a che fare. Tra esse, molto più conosciuta sarebbe invece la gaggia (Acacia farnesiana L.) ma oltre ad essa di acacie se  ne conoscono molte di più.


Un vasto genere di acacie , quindi, molto simili tra loro ma piuttosto diverse per i botanici, non ci si può sbagliare. Per la scienza ci troveremmo al cospetto di una ramificazione che classifica circa 1300 specie di cui molte originarie del continente oceanico, tropicale africano, arabo, asiatico e americano. In Puglia ne esistono eccome! Le ritroviamo lungo i bordi delle sue coste joniche o a sprizzare di ciuffi dorati e d’intenso profumo quegli ormai rari scampoli di macchia mediterranea rimasti a rendere il territorio veramente speciale.


Un viale molto bello si riscontra nel bel mezzo dell’area naturale protetta del bosco delle Cesine percorrendo la litoranea adriatica salentina. Quando le sue infiorescenze sono bianche, diventano simbolo d’amore platonico altrimenti rappresentano la purezza e l’immortalità.


In ogni caso i suoi luminosi capolini gialli, dall’elevato valore simbolico, sarebbero da mostrare con fierezza come un magnifico fiore all’occhiello di un territorio. Tale pianta è un’icona che trae origine anche dall’etimo che l’ha generato così caro e sacro perfino agli antichi egizi. La combinazione dei suoi colori sarebbe invece considerata perfino come buon augurio dagli sportivi australiani.


Il duro legno dell’acacia è così pregiato tanto da essere impiegato perfino, secondo la Bibbia, per modellare l’Arca dell’Alleanza e ancor prima dagli egizi per rinforzare le loro tipiche barche da trasporto.


La capacità delle radici di esplorare il terreno di habitat difficili annoverano le acacie  tra le essenze meglio preferite dalla selvicoltura e dal vivaismo specialmente quando si associano a tigli, pini e querce. Questa pianta riesce a ripopolare incendi boschivi e come tutte le leguminose, le loro radici riescono a fissare in gran quantità l’azoto atmosferico nel terreno, elemento utile per l’ecosistema.


Per questo motivo e per via della loro dominanza sulle altre specie vicine sono viste da qualcuno come un demone in terra da eradicare. Si è discusso sul valore e sugli svantaggi del loro sviluppo ma quello che è certo che sarebbe un vero peccato privarci della loro presenza anche perché darebbero riparo a insetti e uccelli utili ai quei delicati equilibri ecologici che conosciamo.



L'albero dell'Acacia immortale

giovedì 6 novembre 2014

Il primo Globetrotters: LUIGI MASETTI

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Pioniere dei viaggi avventurosi e protagonista di grandi imprese, nel 1893 compì il viaggissimo Milano-Londra-Chicago-Londra-Milano in bicicletta. Luigi Masetti era un aedo del viaggio, un eroe delle strade sterrate, un biciclista (così si chiamavano all’epoca i ciclisti) che non tardò a destare entusiasmo e curiosità nelle masse al suo passaggio.


Oggi sarebbe considerato uno spirito libero anzi a dirla tutta – qualcuno l’ha definito l’anarchico delle due ruote – ma non è l’unico primato che spetta a questo insolito personaggio che si può considerare a giusta causa, il primo “cicloviaggiatore” del quale si abbia memoria.


Il diario del suo viaggio venne pubblicato a più episodi sulle pagine di un appena nato Corriere della Sera e un suo dagherrotipo fu pubblicato sulla già allora prestigiosa rivista del Touring Club Italiano.


Nato nel 1864 in un piccolo centro del Polesine, Trecenta in provincia di Rovigo, Masetti ben presto è costretto a trasferirsi a Milano. In quel periodo il capoluogo nel lombardo erano già presenti le prime fabbriche di biciclette che contribuiranno a rendere Milano una delle capitali del ciclismo europeo da qui il suo interesse – che poi sfocerà in una vera e propria passione – per il “biciclo” e sempre da qui inizierà la sua personale esplorazione per il mondo a cavallo della sua bici.


Saranno molte le sue imprese che per l’epoca si potrebbero definire dei veri e propri “raid” in bicicletta: Luigi Masetti attraversa Stati Uniti, Francia, Spagna, Germania, Russia, Medio Oriente; durante questo suo viaggio, si dice che abbia incontrato il presidente degli Stati Uniti e conversa serenamente con Tolstoj.


Partecipa alla prima Milano-Torino, a diversi “criterium” (un particolare tipo di gara in cui viene ripetuto più volte lo stesso giro) su pista al Trotter milanese e in occasioni come queste, stringe amicizia con un noto nome del giornalismo italiano: Eugenio Torelli Violler, fondatore e direttore del Corriere della Sera.


Il giro delle gare ben presto inizierà a stargli stretto, il suo spirito indomito e libero lo spinge sempre più ad intraprendere sentieri che lo porteranno sempre più lontano dai suoi luoghi natii. Nel 1892 compie un giro cicloturistico d’Europa (Milano-Parigi-Berlino-Vienna-Milano), ma è nel 1893 che compirà il viaggio che lo consegna definitivamente alla storia: il “viaggissimo” così sarà battezzata la sua impresa che lo vedrà partire da Milano arrivare a Londra, attraversare l’oceano Atlantico toccare New York e poi dirigersi verso i grandi laghi del nord America, puntare su Chicago e ritornare a Milano.


A questo seguiranno altri “viaggissimi” come: Alpi-Piramidi-Milano, Ceuta Capo Nord – Bosforo.


Masetti studia i suoi percorsi, li pianifica e li compie con lo spirito di un vagabondo assetato di conoscenza e di sapere, aspetto che riuscirà ad arricchire con i suoi incontri con popolazioni e culture diverse tanto da farlo diventare il primo “cittadino del mondo” in sella ad una bicicletta.


Vero precursore dello “slow del pedale” pedalata dopo pedalata Luigi Masetti segna la strada che oggi molti cercano di seguire, le sue imprese vanno a iscriversi in un periodo storico, nel quale difficilmente potevano esistere aperture mentali come la da sua; per questo la sua figura si staglia come un gigante su un orizzonte che non trova uguali, compiere attraversate come quelle descritte, su mezzi meccanici ancora non perfetti rendono Masetti una persona, unica e difficilmente eguagliabile.


Al paese che ha visto i suoi natali, non esiste una sua traccia. Le sue imprese non sono degnamente ricordate anzi, sono tute cadute in un dimenticatoio con un silenzio assordante.


«Se fosse francese sarebbe portato sugli scudi – se fosse americano si sarebbe fatto una sostanza, ma è italiano, non è quindi da stupirsi, se fuor che da pochi il suo viaggio ardito è calcolato un nonnulla», si leggeva, nel 1893, su “Il Ciclo” non appena il Masetti ritornò dal viaggissimo Milano-Londra-Chicago-Milano.


Se fosse stato tedesco, come l’Heinrich Horstmann che il 2 maggio 1895 montò sulla bici per compiere il giro del mondo (portato a termine il 16 agosto 1897), avrebbe fatto soldi a palate.


La sua tenacia e la sua caparbietà lo rendono un messaggero dell’italianità ai popoli da lui incontrati sulle strade del mondo e dopo tante imprese distanze coperte a colpi di pedale, risulta difficile immaginare che Luigi Masetti possa aver finito la sua vita in un comune letto a Milano nel 1940 anche se circondato dall’affetto dei suoi cari, perché: “gli altri eroi della bicicletta hanno esalato l’ultimo respiro accanto al loro mezzo meccanico, con lo sguardo spalancato sul mondo che percorsero e amarono, superando le abitudini e l’inerzia quotidiana”.



Il primo Globetrotters: LUIGI MASETTI

Tarallucci e vino: l’aperitivo dei litiganti

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tarallucci e vinoIn Italia, quando un dibattito dai toni accesi e controversi si sbroglia in modo amichevole, si usa l’espressione “finire a tarallucci e vino”. Si conclude così una discussione animata, non per un intento di far pace ma per poca e pigra fermezza dei rivali o magari per subdoli e quietanti accordi.


L’atto di inzuppare il taralluccio in un buon calice di vino rosso per molti sarebbe la metafora che risolve un’enfatica disputa tra avversari. Di competizioni, amorose, ideologiche o politiche, ce ne sono a iosa e spesso l’unico modo di risolverle perché provocano un fastidioso disagio interiore e collettivo è proprio quello di ammollarle in un sano raduno conviviale.


A proposito di taralli, al contrario di quel che si dice, sembra poco plausibile che i cavalieri templari se li siano portati appresso nella saccoccia durante la prima crociata; pare, infatti, che i pugliesi li avessero iniziati a proporre per primi almeno tre secoli dopo le loro partenze.


Le masserie fortificate del Salento, in quel periodo, iniziavano a produrre i primi taralli e a farsi il vino,  pensandoli non solo come scorte di sussistenza, ma anche come aperitivo da offrire ai pirati saraceni giunti stremati dalla navigazione che pur non essendo propriamente ospiti apprezzavano eccome.


Non sempre, quindi, torri difensive, sciabolate e olio bollente? Chissà forse i pirati festeggiavano con i pugliesi le loro più semplici passeggiate di conquista sgranocchiando semplici tarallucci e brindando con il vino.


Per i sottomessi, pur di non essere passati alle armi, il miglior ripiego era proprio quello di concedere amicizia e ospitalità. Sorridete pure ma quest’integrazione ci riporta, ancora oggi, attraverso i caratteri somatici di alcuni pugliesi, tipicamente orientali, alla nostra lontana storia.


L’etimo del tarallone per alcuni deriverebbe proprio dal suo processo di tostatura o torrefazione ereditato dagli arabi. Per molti il tarallo ha origine da come si identifica il “pane” in grecia, per altri invece questo nome si ricondurrebbe alla sua forma che è un bel cordolo circolare dorato.


Oltre ai pugliesi, lo sanno bene gli amici napoletani, prima che il romantico mestiere del venditore di taralli si perdesse. Il “tarallaro” era una figura forte di una ricetta tradizionale meridionale basata sul grano locale con l’aggiunta d’olio d’oliva, strutto (nzogna) e un pizzico di  pepe.


Non c’è alcuna rappresentazione natalizia, pugliese o napoletana, senza il pupo di cartapesta infarinato che porta il cesto di taralli sul capo. “Paré ‘a sporta d”o tarallaro” si direbbe nella splendida Napoli, per descrivere chi per motivi di lavoro è costretto ad ambulare tra i suoi vicoli o chi per la sua indolente generosità è costretto, suo malgrado, per necessità o per un qualunque motivo, a distribuire ai suoi clienti appunto la sua preziosa sporta di taralli.



Tarallucci e vino: l’aperitivo dei litiganti

domenica 2 novembre 2014

L’oro bianco. Il sale

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Un po’ di tempo fa fui invitato da un amico ad assistere al concerto di musiche e canti antichi dell’Italia Meridionale, fui colpito da un canto in particolare dal titolo “Canto dei salarini di Trapani”, era un canto di inizio ‘800 siciliano appunto, ed era costituito da richiami – che i lavoratori si passavano l’un l’altro – che servivano a contare il numero delle “cartelle” (sacchi) di sale estratto durante la giornata. Ciò per non per farsi derubare dall’esattore padronale al momento del salario. Questi canti si chiudevano sempre con un’invocazione alla Madonna.


Il mare e i suoi mestieri. Un rapporto profondo che si è instaurato per secoli tra le popolazioni costiere e il Mediterraneo, un legame che ha dato l’opportunità di creare lavori permettendo di avere un minimo economico per poter sostenere la propria famiglia e vivere in modo dignitoso.


Il raccoglitore di alghe ad esempio – in alcune regioni della Francia e Spagna meridionale – era fondamentale, perché riusciva, attraverso varie fasi lavorative, a trasformare le alghe in concime utile in agricoltura; lo stesso accadeva per il raccoglitore di sabbia che grazie al suo lavoro ha reso possibile la creazione del vetro e con esso delle maestose vetrate istoriate ancor oggi ammirare in molte cattedrali gotiche. Sin dal XII secolo la principale forma di sfruttamento della zona costiera in quasi tutti i mari e del Mediterraneo in particolare, è data dalla raccolta del sale. La sua presenza ha sempre comportato una certa ricchezza e l’origine della sua produzione si perde nella notte dei tempi. Troppo prezioso il sale. Oltre che per il suo uso comune, quale condimento di pietanze, la sua maggiore particolarità consiste nella sua proprietà di conservante dei cibi.


Già dall’età del ferro, l’uomo mediterraneo ha adottato delle lavorazioni che con il passar del tempo si sono trasformate in procedure ben precise per la produzione del sale, sfruttando l’esistenza dei vari piani del terreno dove far decantare l’acqua marina proveniente dalle mareggiate.


Le saline presenti nel Mediterraneo sono senza dubbio le prime sia cronologicamente che per l’abbondanza del prodotto e le tecniche adottate nei vari luoghi, differiscono più nella terminologia che nei procedimenti.


Il principio in base al quale erano organizzate le saline si basava sul massimo sfruttamento dell’azione del sole e del vento che permettevano l’eliminazione dell’acqua marina e quindi nella decantazione graduale che migliorava la qualità e la quantità del sale.


Le varie vasche di decantazione erano collegate tra loro da condotti dotati di una lieve pendenza, per gravità l’acqua scorreva verso le successive vasche sino poi arrivare alle più basse chiamate “bacini di concrezione” dove sale cristallizzava.


Il lavoro che bisognava compiere consisteva principalmente nel mantenere in efficienza, attraverso la pulizia accurata, i condotti presenti tra un bacino e l’altro.


Una volta ottenuto il sale, era raccolto con lunghi rastrelli di legno e ammucchiato a piramide su uno spazio pianeggiante per poi essere stipato in costruzioni rigorosamente asciutte. Gli uomini che si occupavano di tale lavorazione erano chiamati salinai, salinari o salarini, e svolgevano sempre lo stesso lavoro durante l’intero anno solare. Salvo alcune eccezioni, la mano d’opera era fornita da operai che godevano dello stato di libertà, solo in qualche rara eccezione si ha notizia di schiavi nel Golfo di Venezia (l’odierno Adriatico).


Lo storico Jaques Le Goff sostiene che molte saline – in genere le più importanti – appartenevano soprattutto alle grandi abbazie, anche molto lontane dalle coste, in quanto beneficiarie di donazioni laiche.


Il consumo del sale avveniva – in un primo momento – a circuito chiuso, ed era destinato agli abitanti e al bestiame del feudo dell’abbazia – in un secondo momento – poi la circolazione del sale in terre oltre o confini dell’abbazia era affidata a gruppi di addetti che poi assunsero il nome di “flotte dell’abbazia”.


In molte cronache del Mediterraneo i “Salinatori” erano spesso descritti come le “persone più povere di tutti i paesi del circondario”, costrette a vivere alla giornata lavorando duramente e data l’enorme mole di lavoro erano costretti spesso a coinvolgere l’intera famiglia nella raccolta del prezioso minerale, coperti di debiti con il proprietario (cui spettavano i due terzi dei proventi) e con i mercanti di sale presso i quali erano costretti a ipotecare anticipatamente la parte loro spettante dei futuri guadagni.


La loro situazione economica quindi, versava in condizioni talmente critiche da riportare testimonianze che lamentavano frasi del tipo: “Siamo costretti a condire le verdure di cui ci cibiamo con il sale delle nostre lacrime”.


Un tardivo e primo riconoscimento dell’utilità sociale di questi lavoratori, fu concesso dalla Chiesa nel XVII secolo che, sia pur molto cautamente, concesse che il lavoro della raccolta del sale si potesse compiere anche la domenica, questo al fine di “non far prosciugare il sistema delle canalizzazioni e delle vasche, onde evitare il rischio di interrompere la produzione del sale”.


L’acqua di mare e il suo sale: due elementi sacri fondamentali, perché in alcune regioni mediterranee costituiscono gli elementi base del battesimo.


I raccoglitori di sale erano quindi, i “contadini del mare”; coltivavano e traevano il frutto che permetteva loro di vivere, oltre al fatto che grazie alla loro continua presenza lavorativa, vigilavano le coste e potevano in caso di necessità, trasformarsi in naviganti.


Pronti a qualsiasi evenienza, umili, spesso miserabili, erano uomini verso cui noi mediterranei europei, siamo ancora in debito.



L’oro bianco. Il sale

La Batata

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batataMolti credono che la patata zuccherina  (Ipomea batatas L.) meglio conosciuta come patata americana (sweet potato) o batata sia una parente della patata comune (Solanum tuberosum ) perché gli assomiglia molto. Per noi non sarà certo un semplice cambio di consonante per indurci alla confusione. Qualcuno rimarrà sgomento a questa informazione botanica!


La Batata appartiene alla famiglia delle convolvulaceae, non ha niente a che fare con quella delle patate comunemente dette che è quella delle solanaceae; anzi vi aggiungo che il suo apparato radicale non è nemmeno un tubero ma una radice tuberosa.


Un altro dilemma è stato quindi finalmente risolto. Adesso potreste recarvi tranquillamente dal vostro fruttivendolo e rivendicargli queste grandi curiosità, all’occorrenza compratela perché questo prodotto possiede un alto valore alimentare.



La Batata

mercoledì 29 ottobre 2014

Mela Kako per essere coraggioso

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melakakoL’albero del Kako (Diospyros kaki) è uno dei più antichi alberi da frutto coltivati dall’umanità. È particolarmente coltivato nella Cina meridionale, conosciuto anche come Mela d’Oriente. Per i cinesi è l’albero delle Sette Virtù, per i giapponesi è l’albero della Pace, per essere scampato alla bomba di Nagasaki, mentre per i greci è il frumento di Giove.


In Italia pare che il primo albero di Kaki sia stato piantato nel giardino di Boboli a Firenze. La Campania, in particolare dell’agro di Nocera, e la Sicilia, con la varietà di Misilmeri, rappresentano le regioni, dove è più diffusa la sua coltivazione.


Si coltiva meno nel Salento, del sud della Puglia, dove si dice che quest’albero (arviru de Kau) rappresenti il coraggio di partire. Questo coraggio è definito dal numero di semi che trova nel suo frutto. Sarebbe anche il numero delle città di arrivo dove seminarli. Da qui poi la filastrocca: “Apru lu Kau, nuzzulu ttrou, Kau Kau nuzzulu neu” (taglio il Kako trovo un seme, Kako Kako nocciolo nuovo). Una metafora creata ad hoc da qualche emigrato partito da giovane per cercar fortuna all’estero.


Già, la quantità di semi che ci aspetta nel frutto di Mela Kako è sempre un’incognita, a volte sono numerosi altre volte non ne trovi nessuno. Questo dipende dalla varietà partenocarpiche, cioè da quelle cultivar che sviluppano comunque il frutto senza fecondazione e quindi privi di semi.


Il frutto che ha il colore di un sole al tramonto, esprime calore ed energia, contiene altrettanti benefici. È ricco di Sali minerali come il potassio e il fosforo, vitamine e betacarotene e porta innumerevoli proprietà terapeutiche quali diuretiche, depurative e lassative



Mela Kako per essere coraggioso

lunedì 27 ottobre 2014

Quando le foglie cadono

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viraggi foglie di vite -Per le piante la dormienza è una sorta di segreto e delicato riposo vegetativo, simile al letargo degli animali, durante la quale le cellule rallentano le loro attività fino quasi a sospendersi. Questo stato coincide all’incirca con il periodo autunnale quando l’albero stacca le sue foglie.


Le foglie che cadono sono l’ouverture dell’inverno, si associano a quel dolce stacco che richiama la linfa elaborata e dicono all’albero di non disperderla e di accumularla nel suo tronco sotto forma di riserva utile per la prossima fioritura.


Senza troppi sforzi, la caduta delle foglie ripete all’albero che la buona stagione è ancora lontana, che le rigide temperature possono nuocere i suoi tessuti ed è ormai arrivato il tempo di difendersi.


Le piante decidue adottano delle strategie che sorprendono. All’opposto degli esseri umani si spogliano per proteggersi, esse denudano la loro chioma per sopravvivere. Solo in questo modo potrebbero passare indenni i cali repentini delle temperature e le variazioni dell’intensità luminosa.


Come se fosse un intimo gioco tra le parti in equilibrio, tra apparati epigei e contrafforti radicali, la pianta risponde de-pigmentando la clorofilla, virando e ossidando i suoi colori dallo smeraldo alla rossa ruggine passando per l’ocra e l’arancio.


Le foglie cadono e assumono lentamente le sfumature della loro terra perché all’altezza del loro ormai sottile picciolo si crea un setto di abscissione, un lieve collare in grado di mobilitare masse di ormoni vegetali.


I toni della cascola fogliare replicano, nonostante tutto, quelle frequenze che ci confortano lo spettacolo del movimento delle stagioni e rendono il fascino ai nostri brillanti crepuscoli di fine ottobre.


 



Quando le foglie cadono

domenica 12 ottobre 2014

Lu sule ca te ite te scarfa

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032Il sole che ti vede ti riscalda.  In questo proverbio salentino basta surrogare un pronome con una congiunzione per arruffare tutto il suo significato.


L’accezione più plausibile e accreditata è quella che si avvicina a quella più nota del “Carpe diem”, tratta dalle Odi del poeta latino Orazio che t’invita a cogliere l’attimo ma che letteralmente sarebbe più appropriato tradurla come “ vivi il presente e non pensare al futuro”.


La locuzione del Carpe diem si rafforza sorprendentemente con quella del detto popolare salentino.


In questo caso i salentini con l’onnipresenza del sole, che si rivela in qualsiasi momento della loro giornata, anche d’inverno, possono tranquillamente dire con orgoglio che il loro proverbio ha il gusto e il diletto di una massima Zen.


L’autorità di questo proverbio ci raggiunge proprio come un barlume di sole amico che si accorge di noi per illuminarci un’azione.


Forse con questo detto i salentini, popolo più orientale d’Italia, vorrebbero rivendicare per primi, la paternità di una stella che tramonta sempre per rinascere.



Lu sule ca te ite te scarfa

giovedì 2 ottobre 2014

A caccia di Farfalle

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a caccia di farfalle ph m.Ciccarese


Non è una novità che un bruco si trasformi in farfalla, lo sanno tutti. Quello che non si sa è che molte di loro non riescono a uscire dal loro bozzolo, altre si spengono in volo e altre invece dopo aver bevuto dalla rugiada di un semplice fiore.


È quello che succede agli insetti di qualsiasi classe quando un agricoltore si permette di trattare le sue colture con i pesticidi. In questo caso le farfalle non hanno il tempo di volare via o emigrare su altri petali più sicuri. Le sventurate, probabilmente, non sapranno mai quali siano stati gli agenti che hanno decretato la loro fine.


L’aumento della biodiversità disturba alcuni uomini. Non m’interessa che il tuo ortaggio sia esente da insetti, m’interessa che non abbia residui di sostanze chimiche, che sia genuino come nutrimento e soprattutto mi piace riconoscere il colore di una farfalla svolazzare su un campo in fiore.


Pur essendoci molte differenze, gli uomini hanno certamente in comune con le farfalle un apparato circolatorio e un sistema nervoso, un cuore e un cervello pulsanti di linfa e stimoli. In certo qual modo potremmo pure assomigliarci.


L’uomo e gli insetti sono anelli dello stesso ecosistema, è bene ripeterlo, è inutile far finta di non saperlo. Se l’anello si spezza, l’equilibrio va a farsi benedire e con la fine degli insetti rischia anche la nostra sopravvivenza.


Troppe specie di animali sono scomparse dall’avvento dell’agricoltura intensiva. Troppe volte si è abusato della natura. L’uomo non ha bisogno di questo. Sorprende che spesso è proprio quell’erudito che ha bisogno di questa riabilitazione. La fine di un indicatore biologico non è per niente auspicabile. Come spiegarlo?


È una rieducazione molto difficile, quando nelle decisioni non ci sono razionalità e coscienza. Abbiamo il diritto di sapere quante violenza si perpetua nei confronti degli insetti. Se le farfalle sono sempre più rare, è anche colpa dell’uomo.


Le differenza è evidente: c’è vita quando le farfalle vanno a caccia, non c’è vita quando è l’uomo a cacciarle.    



A caccia di Farfalle

domenica 28 settembre 2014

Proverbio salentino: A ci fatia na sarda a ci nu fatia na sarda e menza

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024Trad. A chi lavora una sarda, a chi non lavora una sarda e mezzo.


È uno dei più seducenti proverbi salentini. Sta a significare che non sempre una retribuzione corrisponde al lavoro svolto e spesso chi non fa assolutamente niente incamera di più.


Come in tutti proverbi in vernacolo salentino quello che colpisce è rafforza il suo senso sono i modi e il contesto in cui sono proferiti.


Proprio questo motto assume toni di dura sentenza quando si vede passare un assunto che si dilunga per bisbocciare tra i corridoi della sua sede di lavoro.


Assume invece accento d’incoraggiamento nel mondo del lavoro manuale, specie tra operai, quando tra una meritata pausa e l’altra ci si esorta reciprocamente a riprendere l’attività.


C’è una saggezza intorno a quest’antica colorita espressione assai rilevante se si prova a riflettere sui divari e l’equità nel mondo del lavoro.


A voi i commenti….



Proverbio salentino: A ci fatia na sarda a ci nu fatia na sarda e menza

giovedì 25 settembre 2014

Un cesto colmo di melagrane

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melagranaSamudaya coglie dal suo giardino un vagone di paffute melagrane e le ripone delicatamente sul fondo del suo cesto. Qualcuna si è già dischiusa sporgendo i suoi chicchi a splendere al sole di ottobre. Punica Granatum dell’ordine dei Mirtali è il nome che la scienza ha scelto per il melograno, pianta proveniente dalla Persia, dall’Himalaya, molto coltivato nelle regioni caucasiche dell’Armenia.


La melagrana è una bacca carnosa propriamente chiamata balausta che si manifesta robusta e coriacea, lucida e rustica, che protegge un subisso di reparti asimmetrici detti arilli che contengono i semi; ma quello che più tipizza questo profilo sono proprio i residui del loro calice fiorale, una sorta di corona apicale opposta al picciolo.


A volte è un vero rompicapo sgranare un melograno, staccare minuziosamente, con la dovuta pazienza, i chicchi prismatici dalla sua polpa acidula, non si può fare a meno di radunarne a centinaia nel palmo della mano e compiere il miserevole atto di trasportarli al gusto.


Il valore delle melagrane è stato ben compreso dagli antichi egizi, da cui deriva la radice del suo nome, dai fenici, dalla città di Side e dal popolo ebraico cui univano il suo simbolo all’onestà e alla correttezza.  Per altre radici culturali il melograno ha rappresentato da sempre più di ogni altro frutto la produttività, la fertilità, la ricchezza, lo spirito di unione, del sapere filosofico e umanistico. Per questa ragione la bacca del melograno si è riportata sulle monete, sui dipinti medievali oltre che sullo stemma della città di Granada capitale Andalusa e di tante insegne araldiche e della mitologia classica.


Un piacere agro dolce, che ripassa le varietà più coltivate in Italia, dalla Selinunte al Dente di cavallo, dall’intensa Neirana alla Profeta tipica del Salento, consumate fresche o sotto forma di benefico sorbetto.


 



Un cesto colmo di melagrane

martedì 16 settembre 2014

A Trepuzzi il convegno: DifendiAMO i nostri ulivi….la Xilella è veramente fastidiosa?

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convegno xilellaChe cosa succederà agli ulivi dell’arco Ionico Salentino? Oltre agli esperti tecnici e alle associazioni di categoria a seguito del batterio Xilella fastidiosa ci sono migliaia di olivicoltori in attesa di risposte.  In altre parole ci sarebbe la comunità rurale salentina questa volta scippata dal CoDiRo o complesso del disseccamento rapido dell’olivo, a reclamare riscontri concreti.


Le Linee Guida della regione Puglia su tale fenomeno sono già state pubblicate; già girano con tanto di foto e premessa tra gli ambienti agricoli, sono uno strumento utilizzabile per tecnici e operatori. Sulle tali linee si descrivono: il problema comparso tra gli uliveti secolari, l’ecologia degli insetti vettori, le misure agronomiche da adottare, i regolamenti cui occorre attenersi, le fonti tecniche e scientifiche.


È una mappazza seria mai verificata nel Salento, già ne parlano tutti i giornali del mondo. Sotto i riflettori si dovrebbero profilare le decisioni a lunga e breve scadenza mentre ancora si ricerca su altri possibili vettori del batterio o presenza di funghi.


A Trepuzzi, provincia di Lecce, il 18 settembre dalle ore 19.00 presso il monastero di Sant’Elia, il comitato “ Comune Unico di Terenzano” propone il convegno per discuterne con razionalità, questioni che si accavallano e si intrecciano, momenti senza dubbio delicati e importanti per gli ulivi secolari di Puglia.


Qualcuno li aveva già difesi con coraggio da possibili speculazioni, eradicazioni o potature scriteriate molto tempo prima dell’avvento del batterio. Nel convegno si esporrà per il bene comune, per condividere riflessioni, per dare la giusta voce agli ulivi e ai loro custodi.


Ci sarà una rapida digressione sulle problematiche diffuse dell’uso indiscriminato dei pesticidi in agricoltura, lo sfruttamento dell’agroecosistema, le tecniche naturali per la tutela del territorio, l’esperienza raccontata dei giovani agricoltori e le opinioni di artisti e uomini del mondo ambientale salentino.  Senza dubbio un evento cui vale la pena partecipare.



A Trepuzzi il convegno: DifendiAMO i nostri ulivi….la Xilella è veramente fastidiosa?

“AgriCultura”, a Supersano l’evento che riassume il Salento rurale

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locandina Agricultura SupersanoQualche tempo fa Samudaya con la cartolina “Agricolture, agriculture”, si era confrontata a tracciare una sintesi circa la molteplicità dei movimenti agricoli. In quella pubblicazione si descrivevano i modelli agricoli più in auge e si evidenziava quell’amaro distacco che allontanava l’agricoltura tradizionale da quella moderna.


Le tracce che uniscono oggi i modelli agricoli, in fondo, non sono altro che quelle che riassumono ed espongono tutti gli aspetti propriamente etici che li caratterizzano. Non si produce sempre per trarre un profitto a tutti i costi, spesso si coltiva anche con l’intento di condividere un bene, come un tempo ci si scambiavano cibi come regali.


I tecnici o i gruppi di giovani che si rendono disponibili al confronto e ai quesiti, quali possono essere quelli riguardanti la sovranità alimentare, l’utilizzo indiscriminato di pesticidi, la sottrazione di spazi naturali, intende donarsi alla collettività per contribuire alla tutela della civiltà rurale.


In quest’occasione, si dialoga per conoscere meglio le problematiche degli agricoltori, capire se si sentono oppressi da mille difficoltà o se siano veramente liberi di seminare, individuare gli strumenti e le risorse disponibili oppure valorizzare il loro lavoro prima delle loro produzioni e non viceversa. Questo proposito sarà certamente il preludio al gradevole assaggio prima di sciogliersi alla musica, alle ronde spontanee di pizzica e alle percezioni del dopo convegno di “AgriCultura” di Supersano, in provincia di Lecce.


Domenica 21 settembre, dalle ore 19.30 in poi, piazza IV Novembre, partecipiamo con la passione che ci compete.



“AgriCultura”, a Supersano l’evento che riassume il Salento rurale

giovedì 11 settembre 2014

Alla fiera del Biologico

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Sana di Bologna


In Italia aumenta l’offerta dei prodotti da agricoltura biologica. Le produzioni si amplificano e con loro le nuove attività che si occupano di ristorazione collettiva. Non è una vera e propria invasione, ma il segnale è importante, la cultura ecologica che questo metodo di produzione trasmette si allinea a quella di altre regioni dell’Europa. C’è un forte legame tra l’offerta bio, la tipicità dei gusti, l’esigenza dei consumatori e gli attori che si occupano di mense bio.


Una mensa bio per tutti sarebbe auspicabile, un concorso di progetto che di grande esperienza, motivata dalla proposta etica e agro ambientale di tecnici esperti, aziende agricole, associazioni, enti di controllo.


Aumentano anche le catene di esercizi che offrono prodotti da agricoltura bio; è un segnale importante che giunge da ogni luogo dove vi sia richiesta da parte dei consumatori.


Vi è un forte legame tra le produzioni tipiche bio e i territori attraverso le produzioni e l’esigenza di cibi salutari; tale relazione si espande anche tra le mense scolastiche. Con certezza oggi vi è un forte fabbisogno di mangiare genuino, in altre parole una ricerca alternativa di qualità nei cibi.


Ai convegni del Sana 2014 di Bologna Samudaya era presente: sono intervenuti gli esperti nel mondo dell’agricoltura biologica, biodinamica e naturale, sono stati incontri di relazioni ed esposizione di report tecnici e scientifici per spiegare e informare i vantaggi e gli svantaggi di tale metodo di coltivazione.


Le giornate della fiera sono state raggiunte da migliaia di utenti, per capire qualcosa circa le certificazioni, gli OGM, le qualità molteplici che provengono dai sistemi di certificazione obbligatoria e volontaria.


Oggi è molto interessante soffermarsi anche sui temi dell’agricoltura naturale, cioè di quell’agricoltura indipendente, senza alcuna certificazione, con il pregio di possedere una forte connotazione etica motivata dall’autoproduzione a discapito del profitto, quella orientata verso la difesa assoluta della biodiversità, la valorizzazione dei mercati locali al recupero di antiche varietà e metodi di coltivazione.


Nessuno si senta escluso in questo progetto dove abbiamo trovato libertà di espressione e di produzione, un senso comune di condividere la salubrità, la stagionalità, le misure nutrizionali e il gusto dei frutti della terra.


Samudaya dopo decenni di esperienza in questo settore non sottovaluta queste iniziative e attende nella sua Regione il nuovo Piano di Sviluppo Rurale che prevede il sostegno al mondo dell’agricoltura biologica.


 



Alla fiera del Biologico

martedì 2 settembre 2014

Il ramo d’ulivo per tre emblemi

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ulivo secolare ph Mimmo Ciccarese


Nel Salento del maggio del 2012 si formalizzava l’assegnazione simbolica a Michelle Obama di un ulivo secolare, uno tra i più rappresentativi, l’olivo “Regina”.


I riconoscimenti per tutto l’impegno e la passione profusa in America dalla First Lady a sostegno della nostra dieta mediterranea si erano annoverati così, con quell’attesa che la prima spremuta d’olio sarebbe giunta oltreoceano.


Gli olivicoltori aspiravano che l’interesse della popolazione Nord Americana verso la beneamata Puglia aumentasse.


Nell’autunno di quello stesso anno l’operazione, con tanto di gonfalone ed entusiasmo, si spiegò con la raccolta delle olive da quella pianta monumentale. il gesto fu quello un atto di affezione e solidarietà all’agricoltura mediterranea oltre che una piccola trovata per valorizzare i nostri prodotti attraverso lo splendore di quei monumenti che li avevano generati.


Dovremmo chiederci, adesso, quanto trasporto avesse generato quell’evento e quali sono stati i riscontri? Quanto si conoscessero delle nostre piante secolari in altri luoghi del mondo così come l’abbiamo ereditato noi pugliesi?


Certamente negli Stati uniti la conoscenza dell’ulivo è confermata dal disegno del suo stemma. L’aquila calva con le ali aperte, infatti, stringe con l’artiglio destro proprio un ramoscello d’ulivo come simbolo di pace. Su tale stemma il ramo d’ulivo è disegnato con tredici foglie e tredici olive, un numero non casuale perché ripresenterebbe il numero delle colonie che nel 1776 proclamarono la Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti.


I rami d’ulivo li ritroviamo anche sulla bandiera dell’Organizzazione delle Nazioni Unite:una mappa del mondo rappresentante, una proiezione azimutale equidistante centrata sul polo nord, inscritta in un cercine composto di rami d’ulivo convenzionali incrociati”.


I rami d’ulivo s’incrociano invece con quelli di quercia nello stemma della Repubblica Italiana. Essi simboleggiano la volontà di pace della nazione, sia nel senso dell’accordo interno che come esempio di fratellanza internazionale. Davvero toccante e affascinante l’apparire dell’ulivo su tali sembianze.


La Puglia forte di tali legami rappresenterebbe anche per questo il patrimonio olivicolo più ricco al mondo, una bellezza che non si dovrebbe lasciare passare inosservata, affinché la sua cultura possa offrire ancora qualcosa di buono e possa far diventare l’ulivo secolare figura per nuovi blasoni.



Il ramo d’ulivo per tre emblemi