
In Italia, quando un dibattito dai toni accesi e controversi si sbroglia in modo amichevole, si usa l’espressione “finire a tarallucci e vino”. Si conclude così una discussione animata, non per un intento di far pace ma per poca e pigra fermezza dei rivali o magari per subdoli e quietanti accordi.
L’atto di inzuppare il taralluccio in un buon calice di vino rosso per molti sarebbe la metafora che risolve un’enfatica disputa tra avversari. Di competizioni, amorose, ideologiche o politiche, ce ne sono a iosa e spesso l’unico modo di risolverle perché provocano un fastidioso disagio interiore e collettivo è proprio quello di ammollarle in un sano raduno conviviale.
A proposito di taralli, al contrario di quel che si dice, sembra poco plausibile che i cavalieri templari se li siano portati appresso nella saccoccia durante la prima crociata; pare, infatti, che i pugliesi li avessero iniziati a proporre per primi almeno tre secoli dopo le loro partenze.
Le masserie fortificate del Salento, in quel periodo, iniziavano a produrre i primi taralli e a farsi il vino, pensandoli non solo come scorte di sussistenza, ma anche come aperitivo da offrire ai pirati saraceni giunti stremati dalla navigazione che pur non essendo propriamente ospiti apprezzavano eccome.
Non sempre, quindi, torri difensive, sciabolate e olio bollente? Chissà forse i pirati festeggiavano con i pugliesi le loro più semplici passeggiate di conquista sgranocchiando semplici tarallucci e brindando con il vino.
Per i sottomessi, pur di non essere passati alle armi, il miglior ripiego era proprio quello di concedere amicizia e ospitalità. Sorridete pure ma quest’integrazione ci riporta, ancora oggi, attraverso i caratteri somatici di alcuni pugliesi, tipicamente orientali, alla nostra lontana storia.
L’etimo del tarallone per alcuni deriverebbe proprio dal suo processo di tostatura o torrefazione ereditato dagli arabi. Per molti il tarallo ha origine da come si identifica il “pane” in grecia, per altri invece questo nome si ricondurrebbe alla sua forma che è un bel cordolo circolare dorato.
Oltre ai pugliesi, lo sanno bene gli amici napoletani, prima che il romantico mestiere del venditore di taralli si perdesse. Il “tarallaro” era una figura forte di una ricetta tradizionale meridionale basata sul grano locale con l’aggiunta d’olio d’oliva, strutto (nzogna) e un pizzico di pepe.
Non c’è alcuna rappresentazione natalizia, pugliese o napoletana, senza il pupo di cartapesta infarinato che porta il cesto di taralli sul capo. “Paré ‘a sporta d”o tarallaro” si direbbe nella splendida Napoli, per descrivere chi per motivi di lavoro è costretto ad ambulare tra i suoi vicoli o chi per la sua indolente generosità è costretto, suo malgrado, per necessità o per un qualunque motivo, a distribuire ai suoi clienti appunto la sua preziosa sporta di taralli.
Tarallucci e vino: l’aperitivo dei litiganti
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