
Che cosa avrà mai spinto gli artisti a cospargere le loro opere di papaveri? Probabilmente il segreto del loro fascino proviene dalla particolare attenzione cui ogni scienza gli dedica o semplicemente risiede tra i toni accesi dei loro petali stropicciati.
Il papavero comune (Papaver rhoes) si diffonde dappertutto dal momento in cui il loro insolito frutto schiude la sua capsula matura. I piccolissimi semi reniformi che fuoriescono dallo stimma sono destinati a dormire, tra le altre erbe, fino al prossimo risveglio. La fioritura si protrae fino a quando l’opera delle prime rugiade di luglio non aiuta i petali a staccarsi; una coltre di petali rossi che tinteggia le messi dorate come in un quadro impressionista e che ha ispirato Fabrizio De Andrè nella sua magnifica “La guerra di Piero”.
I papaveri rossi sono anche il fiore all’occhiello con cui gli inglesi commemorano, nel giorno del Poppy Day, le vittime delle grandi guerre e che il condottiero mongolo Gengis Khan era solito seminare sui campi di battaglia dopo ogni sua vittoria in segno di onore e di rispetto dei guerrieri caduti.
Nella mia terra il rosolaccio comune è anche chiamato “papagna”, un termine che trae origini antichissime, dal tempo in cui si cominciò a utilizzarlo per le sue proprietà sedative. Una pianta ben conosciuta nel Salento, dove, una volta, attraverso il gioco infantile della “iaddrhina, puddrhascia, puricinu”, ci s’interrogava attraverso la sorpresa e la tonalità e il viraggio dei petali, ancora contenuti nei boccioli, sul giudizio delle azioni da compiere.
Le scoperte inaspettate tra la bibliografia sulla pianta si amplificano a dismisura quando riscontro delle analogie tra i segni impressi su reperti antichi così simili e quel piccolo sigillo con cui marcavo per gioco il mio diario scolastico adoperando la parte superiore della capsula del rosolaccio dalla forma solare. La curiosità sui papaveri comuni perciò potrebbe diventare uno stimolo per condurre un altro studio sul segreto della loro avvenenza.
Il fascino del papavero comune
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