sabato 31 maggio 2014

La Pecora Leccese (Moscia Leccese)

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arieteQualche estate fa, durante uno dei tanti incontri che si fanno con turisti entusiasti, un uomo evidentemente di buona cultura, mi manifestava la sua meraviglia nel riscontrare tanta “grecità” nel Salento. Quell’uomo, ovviamente si era soffermato sulle sfumature linguistiche, culturali ed anche caratteriali, carpite da un animo sensibile durante una vacanza, ma aveva centrato perfettamente quella che forse è la matrice culturale più forgiante per questo territorio.


Il Salento è una terra di eterno passaggio tra occidente e oriente, prima strappata dal mondo latino a quello ellenistico, poi ritornata a quello bizantino per essere definitivamente latinizzata dai normanni.


L’essere discesi da avi orientali, ha portato la “Terra d’Otranto” a evolversi secondo i dettami di quell’impronta senza tuttavia impedirsi di approfittare della modernità portata dai nuovi conquistatori per rendere più organizzato e redditizio il proprio lavoro.


In questo quadro si può ascrivere la storia di una delle attività più antiche e affascinanti che questo territorio: la pastorizia. Se da una parte è, infatti, innegabile che la capacità di allevare gli armenti sia venuta da est, sia altrettanto innegabile che i romani ne fecero una delle attività più importanti e organizzate del mondo rurale, tanto da portare verso la fine dell’impero a considerare questa provincia come una delle più ricche.


Questa storia, ha una protagonista veramente singolare, la pecora di razza Moscia Leccese, detta più semplicemente pecora leccese.


Questa piccola ma fortissima pecora, ha attraversato i secoli con la sua simpatica faccia tutta nera, evolvendosi probabilmente da quei primi ovini che erano giunti al seguito dei popoli orientali che, traversando l’adriatico, si stabilirono nella Puglia meridionale.


I graffiti della Grotta dei Cervi di Porto Badisco, presso Otranto, ci raccontano che i salentini sono agricoltori da quasi seimila anni e tutto questo tempo ha favorito lo sviluppo di una cultura e di una serie di tecniche che hanno forgiato anche il territorio.


I pascoli qui non sono dei più ricchi, le piante hanno il problema di sopravvivere a estati calde e siccitose e inverni poco freddi ma ugualmente abbastanza asciutti, siamo in una delle zone meno piovose d’Italia, per non parlare degli aspetti pedologici, una landa piena di rocce affioranti con poca terra coltivabile e poco profonda, salvo alcune importanti eccezioni in areali ben definiti.


In quest’ambiente si sono selezionate nel mondo ovi-caprino due razze molto peculiari, la pecora leccese, già citata e la capra ionica.


Questi animali rivestono un’importanza talmente rilevante nella storia agricola del Salento che si può tranquillamente asserire siano state l’unica fonte di proteina animale per molti periodi in gran parte dei territori rurali.


La Moscia Leccese è, infatti, una pecora a triplice attitudine, latte, carne e lana e, come sappiamo il formaggio, la ricotta e le carni di agnello, agnellone o castrato hanno un posto di preminenza sulle tavole di questa parte del Bel Paese. A Lecce nelle occasioni speciali e nei giorni di festa importanti, il piatto centrale è la carne d’agnello.


Questa pecora, piccola, forte e molto particolare è un animale straordinario per frugalità e adattabilità.


La statura si attesta dall’altezza al garrese di quasi 56/60 cm nelle femmine ai circa 60/64 dei maschi. Il peso medio di questa razza non è elevato, negli esemplari adulti può raggiungere i 40 kg per le pecore mentre gli arieti possono arrivare ai 60 Kg. (Fonte: Disciplinare dei caratteri standard di razza del 07/11/1937 stilato dal Ministero dell’Agricoltura e Foreste).


La lana, distribuita in un vello di colore bianco, anche se non mancano gli individui a vello completamente nero, è costituita in bioccoli conici lunghi, cadenti fin sotto il costato distribuiti per tutto il tronco fino alla lunga coda. Sono lasciate scoperte testa e arti che, invece, sono coperti da una fine peluria, lucida e rasa di colore nero.


La testa piccola, con piccole orecchie laterali direzionabili e una bocca anch’essa piccola e aggraziata, oltre ad un profilo della stessa testa regolare (rettilineo nella femmina, leggermente convesso nell’ariete), completa una quasi eleganza che rende quest’animale molto piacevole da osservare.


Nelle pecore mancano di solito le corna mentre gli arieti presentano corna a sezione triangolare che tendono ad avvolgersi nella caratteristica spirale aperta.


 


Si ringrazia per la collaborazione scientifica il Dott. Cesario Trenta (Dottore in Scienze della Produzione Animale).



La Pecora Leccese (Moscia Leccese)

Quando si tosa una pecora

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Moscia Leccese Moscia Leccese


Non ero abituato a incontrare dei gregge di pecore senza il loro vello. Le ho trovate tra i pascoli che lambiscono le masserie che solitamente visito. I miei amici pastori mi dicono che il rito della tosatura si fa almeno tre volte l’anno durante i periodi più caldi; tra marzo e settembre, la più importante che nasce da esigenze economiche e sanitarie è quella del mese di giugno. I bioccoli della frugale Moscia leccese, una razza in via di recupero, si arrotolano e si classificano a secondo del calibro delle sue fibre, della loro lunghezza e della purezza e dalle increspature.


Il diametro delle fibre si misura in micron, se non supera la misura di venti il prodotto è di ottima qualità mentre è invece troppo scadente quando valica gli ottanta. La lana è buona se la sua lunghezza si attesta intorno ai quindici cm ma oltre questo limite non è tanto gradita. La percentuale di presenza di peli caprini ne attesta la sua purezza, mentre la densità viene espressa in numero di fili per centimetro quadro. Tutto questo dipende molto dalla regione del corpo da cui proviene la tosatura.


Quando la pecorella contribuisce ad elargire la sua pregiata lana il vispo pastore ne è felice perché sa che tosando con razionale destrezza ne potrebbe ricavarne mediamente dai 2-5 kg all’anno, fino a 15 kg/annui, ma questo è relativo alla razza e alla sanità del suo gregge. Proviamo a calcolare la produzione per 100 capi, si ottengono dai 2 ai 5 quintali annui di lana e moltiplicare per i prezzi in auge nel territorio nazionale per comprendere importanza e la richiesta di tale prodotto oggi utilizzato anche nel settore edile.



Quando si tosa una pecora
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Moscia Leccese Moscia Leccese


Non ero abituato a incontrare un gregge senza il loro vello. Le ho trovate tra i pascoli che lambiscono le masserie che solitamente visito. I miei amici pastori mi dicono che il rito della tosatura si fa almeno tre volte l’anno durante i periodi più caldi; tra marzo e settembre, la più importante che nasce da esigenze economiche e sanitarie è quella del mese di giugno. I bioccoli della frugale Moscia leccese, una razza in via di recupero, si arrotolano e si classificano a secondo del calibro delle sue fibre, della loro lunghezza e della purezza e dalle increspature.


Il diametro delle fibre si misura in micron, se non supera la misura di venti il prodotto è di ottima qualità mentre è invece troppo scadente quando valica gli ottanta. La lana è buona se la lunghezza si attesta intorno ai quindici cm ma oltre questo limite non è tanto gradita. La percentuale di presenza di peli caprini ne attesta la sua purezza, mentre la densità viene espressa in numero di fili per centimetro quadro. Tutto questo dipende molto dalla regione del corpo da cui proviene la tosatura.


Quando la pecorella contribuisce ad elargire la sua pregiata lana il vispo pastore ne è felice perché sa che tosando con razionale destrezza ne potrebbe ricavarne mediamente dai 2-5 kg all’anno, fino a 15 kg/annui, ma questo è relativo alla razza e alla sanità del suo gregge. Proviamo a calcolare la produzione per 100 capi, si ottengono dai 2 ai 5 quintali annui di lana e moltiplicare per i prezzi in auge nel territorio nazionale per comprendere importanza e la richiesta di tale prodotto oggi utilizzato anche nel settore edile.



giovedì 29 maggio 2014

I Portolani del Mediterraneo

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Portolano C.G.A. 5.b. Carta nautica del Mediterraneo e dell'Europa nord-occidentale Il Bulino Edizioni d'Arte Portolano C.G.A. 5.b. Carta nautica del Mediterraneo e dell’Europa nord occidentale. “Il Bulino Edizioni d’Arte”


La navigazione, per l’uomo in particolare quello antico è sempre stata un problema. Le limitazioni erano soprattutto dovute alle conoscenze – limitate – in materia di costruzione delle imbarcazioni, poco strutturate per affrontare la navigazione in mare aperto. Un altro limite era dato dalla superficiale conoscenza delle coste, questo ne limitava l’arte del navigare portando a un conseguente freno agli itinerari e alla possibilità di allargare i confini degli scambi commerciali e culturali.


Solo verso la fine del medioevo, ci si pone il problema di riportare le rotte marine e gli itinerari terrestri su delle carte, certo con un’attendibilità del periodo, ma comunque abbastanza credibili da garantirne il raggiungimento della meta. La prima che lascia traccia di una certa scientificità, abbandonando tutte le connotazioni fantastiche tanto da poter essere considerata una “carta” è la “Carta dei Crociati” che risale verosimilmente al XIV secolo. Questa traccia in nove fogli tutti i territori che i crociati – che partivano da Londra – incontravano prima di arrivare a Gerusalemme.


Molte di queste carte, nel mondo cristiano, erano elaborate da religiosi all’interno dei conventi e quindi difficilmente propagabili all’esterno delle mura religiose, quindi mentre il mondo latino, rinchiude al suo interno il sapere e lo reinterpreta in chiave religiosa, nel mondo islamico la cultura e la conoscenza delle rotte marine e dei tracciati terrestri, acquisiscono una valenza di apertura, a ricavarne dei vantaggi furono soprattutto i commercianti.


Dall’XI secolo la cartografia araba si arricchisce di nuove nozioni geografiche, tale avvenimento può essere ricercato dall’inevitabile contatto – in particolar modo avvenuto per mare – con la cultura europea; gli arabi si trovano a incrociare sulle loro rotte le potenze di Venezia e Bisanzio che ne impediscono il fiorente traffico costringendoli a trovare territori commercialmente “nuovi”.


Così puntando il timone a nord ed entrati nel mar Caspio e risalito il Volga, gli arabi entrarono in contatto nuovi popoli che arricchirono ulteriormente le loro conoscenze in tutti in campi e in particolare in quello geografico.


È in questo periodo che nel Mediterraneo aumentano i traffici commerciali ed è sempre in questo periodo che si assiste alla nascita delle flotte mercantili. Queste erano equipaggiate con navi il cui schema di costruzione era a chiglia tondeggiante. Questo modello costruttivo permetteva una maggiore possibilità di carico delle merci, ma di contro provocava una maggiore difficoltà nel governare la nave. Tale problema era riconducibile alla mancanza di stabilità soprattutto in caso di mare grosso. Il risultato fu che durante l’inverno le imbarcazioni non potevano prendere il mare a causa della maggiore possibilità dell’intemperie.


La risoluzione del problema si ebbe con l’importazione dell’uso della bussola, grazie al suo impiego e alla capacità di avere indicato immediatamente del nord (magnetico) diede la possibilità ai naviganti di compiere viaggi anche in mare aperto, garantendo navigazione in assenza si cielo limpido e annullando quasi del tutto le soste notturne.


Sembra che la prima marineria in occidente a utilizzare la bussola sarebbe stata quella amalfitana, la quale sembra che l’avesse ereditata dai navigatori arabi.


Un altro importante contributo alla navigazione fu dell’avvento dei “Portolani”. Questo era un nuovo tipo di carta, dove si raccoglievano e si elaboravano in forma grafica, tutte le informazioni che potevano essere utili ai fini di una più sicura navigazione come: la descrizione delle coste, i percorsi da seguire in mare aperto attraverso l’identificazione di punti lontani dalla costa (chiamati plegei o pileggi), la descrizione degli arcipelaghi e non ultimo la descrizione delle correnti marine e dei venti predominanti.


Il primo portolano di cui si ha notizia è datato 1296 ed è scritto in Sabir una lingua franca del Mediterraneo, ed era intitolato “Compasso da navegare”.


In questo portolano sono riportate tutte le informazioni delle coste presenti nel Mediterraneo con i loro arcipelaghi venti e porti, le direzioni che gli “Homini de manovra” (cioè chi stava alla barra) dovevano impostare alla nave per raggiungere un punto fermo (il pileggio), le distanze da un punto all’altro misurate in intervalli di tempo. Tutto ciò insomma, che poteva rendere la navigazione più sicura, sia per gli equipaggi sia per le merci.


Gli strumenti utilizzati per la stesura dei portolani erano sostanzialmente due: la bussola (utilizzata per l’orientamento) e la clessidra (per la misurazione del tempo), i portolani erano continuamente aggiornati tale compito era svolto in genere da “i copisti” nelle botteghe, i quali una volta venuti in possesso delle nuove notizie dai marinai, prestavano la propria opera all’aggiornamento delle carte, rendendole così sempre più ricche d’informazioni e quindi sicure.


Il loro uso di diffuse a tal punto da coprire in modo capillare l’intera area del Mediterraneo, così che oggi possiamo suddividerli in due grandi gruppi: un primo dedicato alla navigazione nel Mediterraneo orientale e un secondo dedicato alla navigazione di tutto il Mediterraneo.


Ancora oggi i portolani sono presenti e ne sono in possesso Paesi come l’Inghilterra, la Francia e l’Italia, i primi due per quasi tutto il mondo mentre l’Italia per il bacino del Mediterraneo.


(Vista satellitare del Mediterraneo. Fonte Google Map)




I Portolani del Mediterraneo

martedì 27 maggio 2014

Agricoltura, agriculture

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ph di M.Ciccarese ph M.Ciccarese


Quante agricolture abbiamo? L’agricoltura sostenibile, integrata, naturale e sociale, organica, biologica e biodinamica, sinergica e rigenerativa; poi ci sono l’agricoltura urbana, quella spirituale, verticale e vegana, l’agricoltura itinerante e quantistica.

Quando si parla di agricolture alternative, c’è sempre qualche nuovo ribelle che inventa o scopre un nuovo metodo di produrre, lo adotta, lo fa talmente suo che diventa un credo da diffondere, una comunità, una moda o un esempio di lotta contro le multinazionali che decidono il nostro cibo, le istituzioni, la burocrazia, i marchi o la schiavitù tra i campi.

Allora se queste forme di rinnovamento servono per renderci felici, ben vengano, avremo tante possibilità, strategie e aperture per produrre, anche se, in molti casi, a rifletterci bene, si riscontrano poi con meraviglia che i progenitori contadini le avevano forse già sperimentate con pura semplicità molti secoli prima. Ci sarebbe quindi poco sentore di nuovo tra alcune di queste agricolture?

Non provate a contraddire questo o quel modo di trapiantare peperoni, perché spesso è una vera e propria filosofia, a volte così complessa e radicata, proveniente da culture lontane che non hanno niente a che fare con i nostri climi mediterranei. In questi casi occorrerebbe anche un po’ di umiltà prima di fracassare i sistemi tradizionali dell’agricoltura dei nostri avi.

Si cercano soluzioni, nuovi alimenti da miracolose virtù, rovistando tra i semi antichi, varietà autoctone, passate nel dimenticatoio dell’agricoltura intensiva, qualche volta improvvisandosi, senza conoscere la fotosintesi, sognando una sicura resa; quella semina esemplare diventa un evento, un’affermazione, da ribadire all’opinione pubblica, un sistema per differenziarsi tra gli altri contadini, affermare la propria r-esistenza rurale con l’unicità della loro orgogliosa scelta.

Chi nasce da una cultura rurale sa molto bene che per produrre occorre pazienza, cura, sacrificio ed impegno. Il vero agricoltore riconosce la possibilità d’insuccesso e silenziosamente, seppur con sofferenza, accetta una gelata primaverile, si rimbocca le maniche e riprende da zero il suo lavoro senza mai perdersi in troppe ciance.



Agricoltura, agriculture

domenica 25 maggio 2014

Le Cupole Maiolicate

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CupolaSono tanti i “Mediterranei” che possiamo raccontare: Il Mediterraneo antico; il Mediterraneo dei poeti; il Mediterraneo dei naviganti; il Mediterraneo delle sirene…e potremmo continuare all’infinito.


Esiste un sottile filo rosso che accomuna tutti questi aspetti di quest’antico e suggestivo mare: la capacità di essere riuscito a mettere in comunicazione tutte le civiltà che sulle sue sponde – sia settentrionali sia meridionali – sono nate e si sono sviluppate perché il Mediterraneo “è un insieme di vie marittime e terrestri collegate tra loro” (F. Braudel, Il Mediterraneo, Bompiani Ed.).


Sono numerosi i caratteri comuni che possiamo scoprire, anche se separati da centinaia di miglia marittime, fra le popolazioni delle terre che si affacciano su questo mare. Sulle onde del Mediterraneo, hanno viaggiato modelli e culture che hanno varcato gli esili confini dell’uomo, portando nuove esperienze in nuove terre e facendovi giungere un valore aggiunto, del quale ancora oggi noi moderni, ne siamo fruitori.


Le “diversità” nel Mediterraneo che gli antichi greci trovavano nelle popolazioni indigene delle nuove terre, si assottigliano sempre di più proprio grazie alla loro azione di colonizzatori e fondatori di nuove città. L’ educare a nuovi pensieri, il korismòs (per i greci), porta a radicare nei secoli il legame tra le varie popolazioni delle sponde mediterranee.


Molti sono gli elementi che accomunano le culture mediterranee, piccoli e grandi aspetti sono stati in grado di trasformare i diversi bacini geopolitici mediterranei in un unicum bacino culturale: quello Mediterraneo. Operazione questa di altissima valenza storico-culturale che possiamo ritrovare solo – anche se con caratteristiche diverse – nell’estremo oriente.


Tante sono le storie che possiamo raccontare, tra queste vi è l’arte della ceramica. La racconteremo non nella forma a noi più familiare come vasellame o suppellettili, ma come elemento decorativo nelle opere architettoniche. L’impiego dei materiali ceramici nell’architettura italiana risale al secolo XI; per creare un quadro in grado di fornire una visione d’insieme faremo ancora ricorso al passato.


Nel corso dei secoli, le rotte che hanno attraversato il Mediterraneo hanno contribuito in modo importante alla nascita di un “sistema Mediterraneo” inteso sia sotto l’aspetto commerciale che culturale.


L’uso della ceramica decorativa era già conosciuto presso molte popolazioni dell’antichità ma è in Iraq che è applicato a un monumento molto rappresentativo: nella Porta di Ishtar dell’arte assiro-babilonese.


In epoche successive l’unico protagonista indiscusso che si propone nello scenario della produzione della maiolica e il suo impiego è il mondo islamico che ne fa un elemento fondamentale per le decorazioni nelle sue Cupola 1costruzioni.


L’impiego della ceramica seguì di pari passo le conquiste territoriali del popolo arabo sino a riuscire a penetrare in modo massiccio nella religiosissima Europa attraverso la conquista della Spagna, che diffuse la maiolica nell’architettura europea.


Dal Cinquecento si diffonde l’uso delle maioliche policrome nei rivestimenti delle cupole delle chiese, grazie alle loro caratteristiche di brillantezza, capacità di durare nel tempo, e alto valore estetico. Le tegole note con il nome di rigiole saranno utilizzate sino all’Ottocento.


Le tegole maiolicate erano colorate con diverse pigmentazioni e la loro posa in opera ne prevedeva una parziale sovrapposizione l’una sull’altra; tale accorgimento evitava di creare “fughe” (cioè spazi non coperti tra una maiolica e l’altra) in modo da garantirne una buona tenuta agli agenti atmosferici. Gli schemi di posa in opera procedevano secondo diverse tipologie: a diagonali parallele lungo tutta la calotta esterna della cupola, oppure poste per ottenere formazioni a “V”, a spina di pesce, o ancora a rombi semplici o concentrici. Tali diverse tecniche erano impiegate in funzione all’effetto estetico finale che si voleva ottenere, valorizzato dalle policromie che si decideva di accostare, in genere i colori base delle maioliche variavano da un minimo di due a un massimo di cinque.


Duomo e Campanile di Lecce Duomo e Campanile di Lecce


La tecnica di posa prevedeva la formazione di una base unica di calce, miscelata in modo compatto: questo permetteva il posizionamento e il conseguente ancoraggio degli elementi.


Per rivestire l’intera cupola si partiva dal basso. L’effetto di slancio verso l’alto, che garantiva leggerezza ed eleganza alla costruzione, era ottenuto grazie a due tecniche: la disposizione geometrica – a motivi sfalsati o concentrici il cui diametro diminuiva man mano che si procedeva verso la chiusura della cupola, a “V”, a “spina di pesce”, a “diagonali” – e l’impiego di elementi dalle dimensioni decrescenti, le rigiole più grandi, infatti, erano posate alla base della cupola, mentre quelle dalle dimensioni minori erano posate sui livelli più alti.


Tra le molteplici tipologie di formelle – che assumono forme e denominazioni diverse al variare dei luoghi di produzione – è utile ricordare quelle maggiormente utilizzate per il rivestimento delle cupole, chiamate “a squame” proprio per la loro forma che ricorda le squame dei pesci.


Cupola della Chiesa di San Luigi a Lecce Cupola della Chiesa di San Luigi a Lecce


Queste presentano un andamento lievemente rastremato verso l’alto ai lati e la parte inferiore semicircolare, tale profilo permette un ottimale affiancamento e una maggiore adattabilità alla disposizione lungo le superfici curve.


Ancora oggi possiamo ammirare questo tipo di decorazioni, alcuni esempi sono presenti anche nel capoluogo salentino come la Cupola del Campanile del Duomo, la Cupola di San Luigi presso l’Arco di Porta Napoli a quella mirabilmente conservata della Chiesa del Carmine, Ma l’esempio più mirabile rimane il chiostro maiolicato di Santa Chiara a Napoli.


Parco guell Parco Güell a Barcellona in Spagna


Altri esempi sono presenti in Sicilia, Sardegna, Calabria. Per ricollegarci a quel sottile filo rosso che corre per l’intero Mediterraneo, di cui abbiamo accennato all’inizio a riprova di quanto ci sia in comune in cultura e gusto nell’area mediterranea, dell’uso della ceramica fino ad arrivare in epoca moderna, non possiamo non citare l’esempio meraviglioso dell’opera di Antoni Gaudì di Parco Güell a Barcellona in Spagna.



 



Le Cupole Maiolicate

sabato 24 maggio 2014

Torri d'avvistamento

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ph di M. Ciccarese ph di M. Ciccarese


Nel buio della notte i due soldati osservavano con attenzione il placido mare davanti ai loro occhi.


La fine della primavera era uno dei momenti di maggiore tensione. Il mare si calmava e il vento da sud, sud-est, rendeva facile la navigazione dei veloci sciabecchi dei pirati turchi, che partendo dalle coste albanesi raggiungevano le spiagge salentine, per depredare e fare razzie nelle masserie leccesi, catturando e facendo schivi gli abitanti dei territori sottoposti alla loro attenzione.


Se avessero visto arrivare una nave turca, avrebbero acceso i fuochi di segnalazione, posti su bracieri installati sul bordo della torre, al lato esposto verso l’entroterra.


Tra i merli della torre erano poste le smeriglie: cannoni a palle.


“Dizionario Universale D Architettura E Dizionario Vitruviano Accuratamente Ordinati Da Baldassare Orsini”, così descrive il cannone: “… s’intende generalmente per ogni sorta di artiglieria, ma propriamente è uno strumento d’arme da fuoco, di bronzo, o di ferro, di forma cilindrica, di varie grandezze, il doppio più grosso di metallo nella culata, che nella bocca …”.


L’artiglieria era posta su ogni lato della torre. E sotto, al centro di ogni lato, vi erano delle feritoie, per disporvi gli archibugi, e “caditoie”, per fare cadere olio bollente sulle teste degli assedianti.


Un “Capo torriere” e tre guardiani, costituivano la guarnigione che presidiava la torre, cui si arrivava tramite un ponte levatoio o una scala di legno, che poteva essere ritratta, passando per un cortile che circondava la torre e cui si aveva accesso tramite una porta, per rendere più difficile l’attacco alla torre.


Le più grandi, erano dotate anche di una cisterna per la raccolta delle acque piovane, per permettere ai difensori una più lunga difesa del punto di avvistamento.


I “cavallari” , guardiani che facevano la spola a cavallo tra le torri, perlustravano i lidi per fornire una maggiore sicurezza, per correre a segnalare, ai paesi dell’entroterra l’arrivo dei pirati, quando questo accadeva.


Per quanto fossero numerose, non sortirono l’effetto sperato, e molte furono distrutte prima ancora che i lavori per costruirle, fossero terminati.


Oggi disseminano le nostre coste, esempi di architettura che dal medioevo si protrassero fino al XVII secolo, simboli di un’epoca intrisa di terrore, che gli abitanti di questi luoghi esorcizzavano facendo uso dell’ironia e il sarcasmo tipici, di chi deve imparare a convivere con la paura di un futuro denso d’incognite.


Un anonimo cantore di quei tempi scrisse:


“… I cannoni e gli archibugi, insieme alle alabarde erano le armi utilizzate per rintuzzare il primo attacco. L’avvisare chi rischiava di essere preda inerme dei gaglioffi e ribaldi venuti dal mare, era il vero, primario scopo di chi, assiso sulla torre, doveva curarsi di far da vedetta per la salvezza dei corpi degli abitanti dei borghi, masserie, castelli e monasteri, che a quello delle anime ci avrebbe pensato il Vescovo …”.


Il fascino del papavero comune

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ph di M. Ciccarese ph di M. Ciccarese


Che cosa avrà mai spinto gli artisti a cospargere le loro opere di papaveri? Probabilmente il segreto del loro fascino proviene dalla particolare attenzione cui ogni scienza gli dedica o semplicemente risiede tra i toni accesi dei loro petali stropicciati.

Il papavero comune (Papaver rhoes) si diffonde dappertutto dal momento in cui il loro insolito frutto schiude la sua capsula matura. I piccolissimi semi reniformi che fuoriescono dallo stimma sono destinati a dormire, tra le altre erbe, fino al prossimo risveglio. La fioritura si protrae fino a quando l’opera delle prime rugiade di luglio non aiuta i petali a staccarsi; una coltre di petali rossi che tinteggia le messi dorate come in un quadro impressionista e che ha ispirato Fabrizio De Andrè nella sua magnifica “La guerra di Piero”.

I papaveri rossi sono anche il fiore all’occhiello con cui gli inglesi commemorano, nel giorno del Poppy Day, le vittime delle grandi guerre e che il condottiero mongolo Gengis Khan era solito seminare sui campi di battaglia dopo ogni sua vittoria in segno di onore e di rispetto dei guerrieri caduti.

Nella mia terra il rosolaccio comune è anche chiamato “papagna”, un termine che trae origini antichissime, dal tempo in cui si cominciò a utilizzarlo per le sue proprietà sedative. Una pianta ben conosciuta nel Salento, dove, una volta, attraverso il gioco infantile della “iaddrhina, puddrhascia, puricinu”, ci s’interrogava attraverso la sorpresa e la tonalità e il viraggio dei petali, ancora contenuti nei boccioli, sul giudizio delle azioni da compiere.

capsula di Papaver rhoes ph. M. Ciccarese capsula di Papaver rhoes ph. M. Ciccarese


Le scoperte inaspettate tra la bibliografia sulla pianta si amplificano a dismisura quando riscontro delle analogie tra i segni impressi su reperti antichi così simili e quel piccolo sigillo con cui marcavo per gioco il mio diario scolastico adoperando la parte superiore della capsula del rosolaccio dalla forma solare. La curiosità sui papaveri comuni perciò potrebbe diventare uno stimolo per condurre un altro studio sul segreto della loro avvenenza.



Il fascino del papavero comune

giovedì 22 maggio 2014

Anemone e l’attesa di un amore lontano

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ph di M. Ciccarese ph di M. Ciccarese


Quando la bella ninfa Anemone prese il cuore di due venti, quello della primavera e quello della tramontana, Zefiro e Borea, Chloris, la dea dei fiori, ingelosita ebbe il potere di condannare la povera Anemone, trasfigurata in fiore, ad anticipare l’apertura dei petali qualche settimana prima della calda stagione perché fosse esposta alla forza dei venti più gelidi e mai più alle carezze delle sue conquiste.

Un tormento che marca la caducità dei suoi petali, una bellezza fugace come il sentimento che simboleggia. L’anemone trovato per caso tra l’erba alta, in effetti, ha un’antesi di breve durata, ha piccoli petali che destano meno attenzione di altri più grandi pur appartenendo al microcosmo smisurato degli habitat mediterranei.

Quando si regala un anemone, perciò, si comunicano il desiderio e la richiesta di avere il proprio amore più vicino, rappresenta l’attesa, la fiducia e la speranza di un ritorno. Come i gigli sorti sotto la Croce dalle lacrime della Madre, così l’anemone rosso fuoco si genera dal sangue del suo Figlio, un prodotto malinconico di fede e illusione, ancora oggi protagonista di leggende e racconti di cavalieri.

Per una leggenda pugliese i petali dell’anemone fermati dai capelli di una donna rappresentano una missiva proveniente da un amore lontano.

Una formula fiorale rivolta perciò a descriversi in fretta come la legenda di questa ennesima cartolina lanciata nell’etere.



Anemone e l’attesa di un amore lontano

mercoledì 21 maggio 2014

Cuore di ciliegia

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ph di M. ciccarese ph di M. ciccarese


Nel mio dialetto quasi balcanico il nome Cirasa indica l’albero di ciliegio (Prunus avium)e i suoi frutti.

Nella mia ricerca trovo che il nome deriva dal greco Kerasos, una radice che indica la durezza del legno e del nocciolo. Scopro che anche il cerro e il corniolo hanno la analoga radice per lo stesso motivo. Altri sostengono che derivi dalla città di Cerasunte colonia greca dell’isola di Ponto da cui secondo Plinio il Vecchio fu importato dal gastronomo Lucullo, anche se il suo areale di origine sia iraniano, già diffuso sulle coste del mar Caspio.

È un pruno della famiglia delle rosacee e il suo frutto è una drupa a forma di cuore dal sapore molto dolce leggermente acidulo come quello delle visciole, delle agriotte e delle amarene a polpa carnosa e succosa dura o molle.

L’albero della ciliegia dolce molto coltivato nelle Puglie offre i suoi generosi frutti già a metà di maggio nel periodo in cui giungono dal nord le prime orde migratorie degli uccelli affamati.

Un albero intorno al quale si riscoprono numerose leggende e folclore dal carattere decisamente rurale, religioso e pagano. Una di esse dice che un intreccio di paglia posto tra i rami del ciliegio nel periodo del solstizio invernale sarebbe un monito all’albero per non essere abbattuto qualora non avrebbe ripetuto l’abbondanza di frutti dell’annata precedente. Molti racconti sul ciliegio si legano alla ricorrenza di San Giorgio, ad aprile, quando i fiori iniziano ad allegare, periodi in cui la pioggia potrebbe compromettere la fruttificazione. Per altre tradizioni non è auspicabile salire su un albero di ciliegi, il giorno della ricorrenza di San Giovanni o di Santa Maria Maddalena, cioè dopo la raccolta delle ciliegie. Una leggenda, quest’ultima, strettamente legata al folclore pagano dei popoli slavi, germanici e lituani che avrebbe similitudini al racconto di Adamo ed Eva e della mela del peccato originale.

In Giappone il ciliegio ha all’opposto un altro carattere; un culto che trae dallo shintoismo simboli di bellezza, prosperità e beatitudine il cui frutto rosso sangue simboleggia il sacrificio e il coraggio del samurai.

Per l’oroscopo celtico chi sboccia sotto il segno del ciliegio, nel periodo in cui la natura esplode di produzione è concreto e creativo ma anche molto socievole e tenace. L’uomo-ciliegio è perciò un cavaliere poco arrendevole, difende le sue scelte con molta risolutezza, specie se criticato; in amore crea un legame solido che sussulta di passione come il cuore ardente che ricorda il suo frutto.



Cuore di ciliegia

Cuore di ciliegia

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ph di M. ciccarese ph di M. ciccarese


Nel mio dialetto quasi balcanico il nome Cirasa indica l’albero di ciliegio (Prunus avium)e i suoi frutti.

Nella mia ricerca trovo che il nome deriva dal greco Kerasos, una radice che indica la durezza del legno e del nocciolo. Scopro che anche il cerro e il corniolo hanno la stessa radice per lo stesso motivo. Altri sostengono che derivi dalla città di Cerasunte colonia greca dell’isola di Ponto da cui secondo Plinio il Vecchio fu importato dal gastronomo Lucullo, anche se il suo areale di origine sia iraniano, già diffuso sulle coste del mar Caspio.

È un pruno della famiglia delle rosacee e il suo frutto è una drupa a forma di cuore dal sapore molto dolce leggermente acidulo come quello delle visciole, delle agriotte e delle amarene a polpa carnosa e succosa dura o molle.

L’albero della ciliegia dolce molto coltivato nelle Puglie offre i suoi generosi frutti già a metà di maggio nel periodo in cui giungono dal nord le prime orde migratorie degli uccelli affamati.

Un albero intorno al quale si riscoprono numerose leggende e folclore dal carattere decisamente rurale, religioso e pagano. Una di esse dice che un intreccio di paglia posto tra i rami del ciliegio nel periodo del solstizio invernale sarebbe un monito all’albero per non essere abbattuto qualora non avrebbe ripetuto l’abbondanza di frutti dell’annata precedente. Molti racconti sul ciliegio si legano alla ricorrenza di San Giorgio, ad aprile, quando i fiori iniziano ad allegare, periodi in cui la pioggia potrebbe compromettere la fruttificazione. Per altre tradizioni non è auspicabile salire su un albero di ciliegi, il giorno della ricorrenza di San Giovanni o di Santa Maria Maddalena, cioè dopo la raccolta delle ciliegie. Una leggenda, quest’ultima, strettamente legata al folclore pagano dei popoli slavi, germanici e lituani che avrebbe similitudini al racconto di Adamo ed Eva e della mela del peccato originale.

In Giappone il ciliegio ha all’opposto un altro carattere; un culto che trae dallo shintoismo simboli di bellezza, prosperità e beatitudine il cui frutto rosso sangue simboleggia il sacrificio e il coraggio del samurai.

Per l’oroscopo celtico chi sboccia sotto il segno del ciliegio, nel periodo in cui la natura esplode di produzione è concreto e creativo ma anche molto socievole e tenace. L’uomo-ciliegio è perciò un cavaliere poco arrendevole, difende le sue scelte reagendo con molta risolutezza, specie se criticato; in amore crea un legame solido che sussulta di passione come il cuore ardente che ricorda il suo frutto.



Cuore di ciliegia

martedì 20 maggio 2014

La Spiga di Grano

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granoRicordo il movimento ipnotico, il fluire ondoso delle spighe quasi mature. Mio nonno e mio padre che guardavano, soddisfatti, la distesa di grano pronto a essere mietuto.


Io li seguivo, accarezzando con i palmi delle mani la sommità delle spighe. Il solletico era il premio per quel gesto.


Quando guardo le distese di grano coltivato sulle piane del Salento, che spesso si perdono a vista d’occhio, mi vengono in mente quei ricordi.


Il grano mi ha sempre dato l’idea di un mare, prima verde, poi, con lo scorrere del tempo, giallo, con le sue onde, la risacca, la profondità e la vastità.


La spiga di grano, Il chicco di grano, è simbolo di rinascita, segno di speranza e di futuro.

La spiga di grano ha assunto nel tempo una valenza spirituale, fino a diventare emblema che caratterizza l’identità di un popolo, diventando il blasone di stemmi araldici in tutto il mondo.


Esempio e Mito.


Ratto di Proserpina Ratto di Proserpina


Esempio di rinascita dal gelido immobile dell’inverno, Mito di vittoria sulla morte.


Prova del Mito.


I greci la chiamavano Persefone o Kore, i Romani Proserpina, figlia di Cerere, dea madre della terra e della fertilità. Proserpina fu Dea agreste, rapita da Plutone, re dell’Ade, che ne fece la sua sposa e regina degli inferi. Cerere ne chiese la liberazione a Giove, Padre degli Dei. Questi acconsentì, ma obbligò Proserpina a trascorrere sei mesi all’anno con Plutone. Per il dolore, Cerere faceva scendere sulla terra il freddo e il gelo, durante i mesi in cui la figlia era costretta a vivere con il re dell’Ade.


Il Mito di Proserpina vede nel ciclo del grano lo scorrere delle stagioni.


Il grano cibo per l’anima. I cristiani ne fanno dono divino e dal suo utilizzo si ottiene il pane, simbolo eucaristico per eccellenza.


Stemma di Andrano Stemma di Andrano


Emblema d’identità. In araldica è simbolo di operosità agricola e per questo compare di frequente nell’araldica civica di comunità agricole. Simbolo di abbondanza, ricompensa al lavoro e pace, è stato assunto anche come segno di gratitudine da chi era stato salvato in battaglia.


Numerosi sono i Comuni del Salento che hanno scelto la spiga di grano come simbolo identificatore, da far comparire sui propri stemmi araldici.


Nel momento stesso in cui muore, il grano diventa seme che sviluppa tutta la sua potenza vitale nel tempo, creando nuove spighe e chicchi, in un ciclo continuo, senza fine, in cui nulla si distrugge e tutto si trasforma.


Mi viene in mente l’odore del grano tagliato, i canti dei contadini durante la mietitura, ma si è fatto tardi e questo è un altro ricordo.


 


domenica 18 maggio 2014

Arrivo incognito

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sciabeccoIl dondolio dello sciabecco, mentre la nave era alla fonda su una secca, fece tremolare le fiamme delle lampade ad olio, appese al soffitto della cabina, che illuminavano i volti degli uomini attorno al tavolo, nella cabina del Comandante.


-Questa è il punto della costa dove sbarcherete.- disse il Comandante, indicando un punto sulla grande mappa distesa sul tavolo.


-Comandante Hamid, dovremo arrivare quanto più vicino a quel punto.- disse uno degli uomini.


I suoi eleganti vestiti di seta lo indicavano come un capo e la deferenza che il comandante Hamid gli mostrava, non lasciava dubbi sull’importanza del passeggero che il Comandante Hamid aveva imbarcato Costantinopoli: NabihAmdar ibn Azir ibn Rasid, ambasciatore del Califfo di Bagdad, viaggiatore, matematico, astronomo, scienziato e filosofo.


-Ma quel segno indica una torre di avvistamento!- disse stupito il Comandante della Nave.


-Sì è una torre di avvistamento, ma noi sbarcheremo con una piccola barca. I soldati nella torre penseranno che sia solo una delle tante barche di poveri pescatori che cercano di portare a casa qualcosa sfidando la sorte al calare delle tenebre.-


-Pescatori?- chiese stupito il Comandante.


-Sì. Non preoccupatevi Comandante. La notte sarà senza luna e questo ci faciliterà.- disse l’ambasciatore Nabih.


-Ora io e i miei uomini andiamo prepararci, appena sarà scesa l’oscurità, metteremo la barca in acqua e ci avvieremo verso la costa, voi invece prenderete il vento che viene dalla terra e tornerete verso le isole delle’Egeo. Il Califfo sarà contento di voi.- continuò Nabih e uscì dalla cabina accompagnato da due uomini.


Il Comandate fece un inchino con il capo.


Al calar del sole una piccola barca fu calata lungo le mura della nave e depositata in acqua. Tre uomini discesero con delle funi lungo le fiancate di dritta e salirono sulla barca.


Il più giovane dei tre, diede una spinta alla barca poggiando il remo sulla fiancata della nave e la barca cominciò ad allontanarsi.


I due uomini più giovani si misero ognuno a un remo e cominciarono a remare verso la terra che immaginavano oltre l’orizzonte.


Il più anziano era assiso a prua e guardava i due rematori.


-Signore, dovrei essere io quello che rema.- disse l’uomo anziano


-No. Tu sei troppo vecchio ed io non mi sentirei a mio agio vendo che sei sottoposto a uno sforzo che potrei sostenere anch’io e con meno fatica di quanta potresti fare tu.- disse Nabih.


-Il sole morente all’orizzonte sembra il fuoco che fuoriesce da Ǧabal al-burkān, la montagna dell’isola da cui siamo partiti.- disse l’uomo più anziano.


Dopo alcune ore, i due giovani continuavano a remare senza mostrare segni di fatica, entrambi sembravano avvezzi alla fatica. Quando le tenebre erano ormai dense e compatte e la nebbia si levava dalla superficie dell’acqua, la barca si arenò.


Il buio era fitto, ma riuscirono a intravedere una spiaggia e subito dopo una pineta di alberi alti e dalle chiome vaste.


Tutti e tre gli uomini scesero in acqua e portarono la barca in secca sulla spiaggia, raccolsero le poche cose che avevano portato con loro e si diressero nel fitto della pineta, dove si sedettero ai piedi di un albero e attesero le prime luci dell’alba.


venerdì 16 maggio 2014

La nespola del Giappone, un frutto interessante

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nespole del giappone Nespole del Giappone (ph di M. Ciccarese)


I cinesi chiamano il frutto del nespolo giapponese (Eriobotrya japonica), Pipa guo, perché la sua forma ricorda appunto la cassa armonica di questo strumento musicale. I giapponesi invece lo chiamano Biwa, non lo confondono con la nespola comune che nonostante appartenga alla stessa famiglia ha un gusto completamente diverso.


Le nespole sono i primi pomi della primavera che già al timido sole di marzo si annunciano con i brillanti viraggi di gusto e di colore. La nespola è frutto precoce che non ha bisogno della paglia per maturare e gli effetti sul nostro benessere si evidenziano da subito fin dai primi assaggi.


A maggio si raccolgono i primi grappoli pelosi o singolarmente con l’attenzione di riporli delicatamente nel cesto o di non staccare il pedicello che li attacca al ramo. Quest’ultima è un’accortezza importante che rallenta l’opera di trasformazione enzimatica in zuccheri, prerogativa fondamentale che li rende commerciabili.


Le varietà più succulente del Nespolone di Trabia, conosciuta in Sicilia, della Nespola di Ferdinando, della Precoce di Palermo sono solo alcune di quelle presenti in sud dell’Italia che riescono a concorrere all’arrivo impetuoso delle prime ciliegie. Se allevate a sesti d’impianto regolare, possono produrre anche i 200 quintali per ettaro, poco più di 35 kg a pianta per un prezzo medio di due euro/kg e diventare senza dubbio una coltivazione interessante, specialmente nel settore dell’agricoltura biologica del meridione d’Italia.



La nespola del Giappone, un frutto interessante

mercoledì 14 maggio 2014

La rosa, Regina di maggio

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rosa rossa (ph. M. Ciccarese) rosa rossa (ph. M. Ciccarese)


Il nome della rosa, la regina tra i fiori, accomuna almeno due radici etimologiche, una sanscrita che la farebbe risalire alla capacità di flettere il gambo e di emettere spine e una celtica correlata al colore dei suoi petali. In ogni caso, di là da qualsiasi declinazione, i boccioli ci appaiono quasi tutti nel mese di maggio sotto variegati aspetti tonali e il primo quesito ci riporta non solo alla sua origine, europea o asiatica, ma anche alle innumerevoli specie e varietà. Se ne contano più di 150 specie, dal portamento rampicante o cespuglioso o sarmentoso; alcune di loro si riuniscono in arbusti a mazzetti o spighe altre invece sono solitarie.


Una diffusione nota fin dai tempi più remoti, tra molti popoli, i cui estratti essenziali erano utilizzati anche per le loro virtù officinali e aromatiche. La rosa è anche un”crossover” di varietà lanciate in Europa fin dal 1700 con l’introduzione della Rosa del Bengala e poi nel secolo successivo con la Rosa Cinese. Da quel momento in poi si susseguirono una sequenza d’ibridi sempre più raffinati che non si riescono quasi più a contarli.


Nel mondo del vivaismo si coltivano per il fiore reciso, quello migliore per il mercato cui si richiede una serie di caratteristiche ben definite quali la regolarità del gambo, la capacità di rifiorire, la forma del bocciolo, la luminosità dei suoi colori, l’ampiezza dei petali.


Anche il fiore della rosa si lega alle leggende sacre arabe, dell’estremo oriente alle divinità greche o latine che l’avrebbero generata con il vento di Zefiro, il vino di Dionisio e la luce di Apollo. Essa si associa alla presenza dell’Arcangelo Gabriele che trae dal mutamento del loro colore una risposta di verità e di fedeltà e a quella della dea Venere che inciampa e cade rovinosamente su un loro cespuglio. In ambedue i casi, il mutamento dei petali bianchi sarebbe stato quindi la vera profezia alla spasmodica ricerca di nuovi colori.


ph M.Ciccarese ph M.Ciccarese


Perciò il petalo rosa rappresenta la seduzione e la dolcezza che fa conquistare,  quello rosso l’amore ardente e la passione che ritempra il cuore e quello giallo la gelosia e il tradimento che lo fa scalpitare.


 



La rosa, Regina di maggio

lunedì 12 maggio 2014

Una sintesi sulla III Edizione salentina de "La Settimana Bio in Puglia”

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settimana bio in pugliaSono stati veramente interessanti gli argomenti discussi durante la sessione salentina de La Settimana del Bio in Puglia. L’agricoltura biologica in Puglia ha 6.111 operatori economici controllati con una superficie coltivata di 172.111 ettari (dati Sinab 2012) e riconferma il record in Italia, superando tutte le altre regioni.


Un territorio ecologico a forte vocazione olivicola, grazie soprattutto all’encomiabile impegno degli addetti del settore, alla caparbietà e alla forza produttiva delle aziende che hanno scelto questo metodo di coltivazione.


Un settore in crescita su cui l’economia agricola deve puntare, testimoniare la sua importante presenza nel mondo, farsi conoscere ed emergere oltre le attese tra mille difficoltà da affrontare. Un settore capace di generare un fatturato stimato in 500 milioni di euro, superiore al 20% dell’intera PLV della Regione Puglia, un beneficio di prezzo oltre il 20% rispetto alle coltivazioni convenzionali. Questo è il lungo documento trovato tra la cartellina che gli organizzatori hanno offerto oltre ad un efficace e dolce ristoro.


Sono state relazioni brevi e concise, anche da parte delle istituzioni che vorrebbero supportare con la redazione del nuovo PSR (piano di sviluppo rurale) un aiuto economico a chi sceglie di convertire la propria azienda al biologico. Il biologico è ormai un vero e proprio settore, quindi, non più una nicchia, come venti anni fa, quando i consumi in Puglia di prodotti bio si attestavano appena all’1%.


Sono state inoltre presentate le proposte per reindirizzare l’esperienza dei relatori verso un disegno ecologico valido per consumatori e produttori e alcune nozioni circa le novità della Politica agricola (PAC).


Hanno prestato il loro equilibrato e razionale intervento i tecnici competenti, pronti a inchiodare un altro ciclo d’impegni con le realtà amministrative e con le aziende agricole. C’è stato un accenno al retaggio delle organizzazioni professionali bio e le regole con cui si costituiscono; gli interventi sono stati chiusi dai rappresentanti di qualche associazione di categoria che hanno rimarcato l’importanza della ristorazione collettiva bio, il ruolo delle aziende agricole che non sono mancate all’appuntamento. Sono da rilevare anche la presenza dei consumatori, di qualche negozio di prodotti biologici e di un gruppo d’insegnanti interessati all’educazione alimentare.


Come promesso, Samudaya ha sostenuto con la sua presenza l’iniziativa; dopo questo incontro promuovere lo sviluppo dei prodotti biologici dovrebbe essere un dovere.