giovedì 11 giugno 2015

La Peronospora della Vite

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ph M.Ciccarese

ph M.Ciccarese


È un microrganismo detto anche come Plasmopara viticola appartenente alla classe degli oomiceti un fungo proveniente dall’America e importato in Francia alla fine del 1800. Un fungo che compare con quando le condizioni climatiche sono favorevoli. Quando la nostra capannina meteorologica segna precipitazioni superiori ai 10 mm e temperatura minima giornaliera maggiore di 10°C è consigliabile allertarsi. La malattia si completa davvero, però, quando i tralci della vite hanno raggiunto i 10 cm di lunghezza o comunque quando le foglie abbiano delle aperture stomatiche ben differenziate. I flagelli della peronospora si lasciano pattinare su quel velo sottile d’acqua piovana fino a raggiungere il primo stoma libero per occuparlo e attraversarlo, senza alcun permesso, fino a toccare i tessuti fogliari più indifesi. Un’invasione vera e propria cui segue l’altra strategia d’attacco, quella secondaria, quando sviluppa il “ reparto dei conidi” un’altra struttura che trova condizioni ideali a temperature di 13-14° C e un alta umidità relativa dell’aria.  L’apparato fogliare necrotizzato soccombe e cade lasciando scoperte le delicate inforescenze, i piccoli grappoli speranzosi, che fuoriescono da una tormentata fioritura che ingialliscono e si arricciano prima di disseccarsi.  Un fungo temuto, poco gradito dai viticoltori che intervengono a supporto con trattamenti difensivi per prevenire la malattia o curarla. Eccole che spuntano le lotte strategiche di ogni tipo dai composti rameici ai prodotti di sintesi chimica, un arsenale di prodotti pronti all’uso per chi possiede un regolare patentino. Nei periodi d’attacco del fungo, l’allerta che si propaga anche tra le piazze e i bollettini crea giustificata preoccupazione, timore di perdere la pregiata produzione di uva, e l’andirivieni frenetico di comprare questi prodotti si accresce. Trattare in tempo prima che il microrganismo tramortisca le piante, instaurare una lotta infinita, dai tempi della coltivazione della vite, dapprima con la poltiglia bordolese e il verde rame sulle foglie, e poi con i principi attivi del dopoguerra. Eppure qualcuno difende con razionalità la sua sospirata produzione, con la lotta biologica, rinforzando i tralci con concimazioni organiche oculate, che non spingano il vigore vegetativo che rallenti gli eccessi quantitativi, soffermandosi sulla qualità. Esiste perciò una requisito correlato quindi alla presenza del fungo, una sequenza di interventi colturali e culturali, una mentalità spesso orientata a eradicare batteri, funghi, virus e insetti delle piante come se fossero estremi nemici su cui adoperare strumenti chimici, spesso senza leggere le schede tecniche o magari senza neppure avere la licenza al loro utilizzo.



La Peronospora della Vite

sabato 23 maggio 2015

Il fiore del mare

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fiore di rosmarinoIl nome della pianta del rosmarino giunge dalle parole latine ros e marinus, ossia rugiada del mare. Un bell’arbusto dal titolo romantico la cui fioritura tinge d’azzurro i pendii costieri del mediterraneo. Il rosmarino è un’officinale riconosciuta fin dai tempi più antichi come essenza e aroma dalle innumerevoli virtù terapeutiche. E’ la pianta mediterranea che assieme al mirto glorifica i poeti e disseta le api.


La campanula del suo calice raccoglie le piccole corolle che somigliano a un labbro rendendo il titolo alla famiglia cui ne fa parte (ex labiate). Tra i suoi petali gli stami sono ben fermi sui sottili filamenti che si distendono al primo sole di marzo e si radunano in grappoli all’ascella delle foglie come spighe.


Ci sono molti racconti che legano i boccioli di questa pianta alla cura dell’uomo; riti, miti e credenze popolari associate all’immortalità e al benessere tanto da persuadere gli antichi a coltivarlo accanto agli usci delle case assieme a mirto alloro come messaggero d’amore, buon auspicio e fedeltà.


 



Il fiore del mare

sabato 9 maggio 2015

La Festa della Mamma

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rosa rosssaCi sono infiniti modi per chiamare una madre e altrettanti per ricordarla. Per molti popoli europei, il 10 maggio è il giorno dedicato alla festa della mamma. Le origini di tale ricorrenza affondano nella mitologia, con la celebrazione a Reha, sposa di Crono, figlia di Urano e Gea, rispettivamente dio del cielo e della terra.


La madre Reha, per evitare che il dio del tempo Crono mangiasse l’ultimo dei suoi figli, generò Zeus di nascosto in una grotta dell’isola di Creta. Fu proprio Zeus, poi, diventato dio, a vendicare i fratelli sul proprio padre Crono.


Analogamente, nel culto dei romani, Cibele, sarebbe la madre di Cerere, Giunone, Plutone, Nettuno e Giove, cui si dedicava una lunga festa proprio nella prima decade di maggio, mese dei fiori.


Maggio è anche il mese che la tradizione cristiana dedica alla Madonna. Molto prima della divinità di Reha ci sarebbero molti altri culti che affondano nell’era egizia e babilonese, con Iside e Ishtar.


Non tutti i paesi del mondo, celebrano la mamma nel mese di maggio, qualcuno la ricorre a marzo, con la festa delle donne, altri con l’equinozio della primavera, altri nel mese di aprile, agosto o dicembre.


Una ricorrenza quindi che nel mondo si estende per tutto l’arco dell’anno. In Italia, la festa, si accosta al bocciolo della rosa screziata, negli Stati Uniti a quello del garofano bianco o rosso, ma chiunque ha facoltà di scegliere e riverire, ringraziare e augurare con ogni fiore possibile.



La Festa della Mamma

venerdì 1 maggio 2015

Il garofano

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garofaniIl garofano (Dhianthus caryophillus) è un raduno di petali frastagliati e racchiusi nel loro piccolo e robusto calice verde. Quando le sue corolle arruffate raggiungono la veemenza del rosso porpora, esprimono fascino e decisione; se invece sono screziate di rosa, rappresentano l’amore, la più sentita riconoscenza o un’amicizia cara; quando il bocciolo è bianco, racconta la purezza dell’amore materno e la fedeltà nel bouquet della sposa italiana.


Il Dhianthus o “fiore di Giove”, proprio perché immagine di unità e intesa, indicava per gli antichi romani l’amore coniugale e la loro offerta era ben gradita per ogni tipo di cerimonia o anniversario di matrimonio. È anche il fiore arabo riportato in Europa dalle conquiste crociate, quello raffigurato nella sacralità delle pitture rinascimentali, quello nato dal pianto della Madre, tra i gruppi politici, sulla storia della rivoluzione dei portoghesi con i colori del loro stendardo. Un fiore adottato anche dalla Spagna, dalle isole Baleari, dalla Slovenia come emblema territoriale.


Il garofano sarebbe il contrassegno dell’essenza e della pura passione che raddolcisce e sconvolge ogni forma di carattere e sguardo umano; è stato anche il fiore intrepido all’occhiello della nobiltà, dei governatori, delle giacchette della galanteria, un fiocco di conquista per piccoli e grandi imperatori.


Sono i garofani rossi quelli lanciati per celebrare la festa dei lavoratori, la memoria storica d’occupazione, la rivendicazione dei diritti della solidarietà e della condivisione.


Erano, un tempo, i garofani tratteggiati fra le mura delle fabbriche francesi delle otto ore, sono oggi i fiori che arrossano di musica e parole la gente del primo maggio.



Il garofano

sabato 25 aprile 2015

I fiori della resistenza

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red roseTra tanti fiori ce ne sono alcuni che simboleggiano la libertà e la resistenza. Per questo mi sono spesso chiesto quale fosse la specie di fiore che ravviverebbe la conclusione della canzone partigiana Bella Ciao.


Ho indagato tra la cultura degli appassionati di musica e storia popolare per avere altri riscontri. Qualcuno di loro crede che fosse il papavero, altri pensano la rosa o il geranio dai petali rigorosamente rossi.


Eppure l’autore del celebre canto avrà sicuramente pensato a qualcuno di essi. In realtà le parole relative al fiore, è il caso di dirlo, “sbocciano” da una precedente versione di un canto della Maremma toscana, Il fiore di Rosina, il desiderio di una donna innamorata e tradita che richiede a tutti quelli che passeranno accanto al suo cuore tormentato di offrirgli un bel fiore.


Nel linguaggio dei fiori, però, quelli che simboleggiano la forza della resistenza contro quella di qualunque ostilità, sarebbero la camomilla, proprio per le sue virtù rilassanti, l’agrifoglio, l’amaranto e la mimosa. Quest’ultima, insieme al fiore del garofano e alla rosa canina è considerata anche simbolo d’indipendenza. Davvero una difficile ricerca ma utile e avvincente per comprendere meglio come il valore di una libertà possa nascere così, da un semplice canto popolare d’amore e lotta partigiana.


 



I fiori della resistenza

mercoledì 22 aprile 2015

Nel nome di Madre Terra

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giornata della TerraSono passati una mensilità e un giorno dopo l’equinozio di primavera e la Terra oggi sembra davvero cambiata. Dal 22 aprile del 1970, si celebra la Giornata della Terra voluta dalle nazioni unite, da oltre 175 Stati. È un evento voluto dall’ecologia, una breve tregua prima del respiro successivo, giusto l’attimo per valutare le attuali condizioni in cui versa il pianeta.


I gruppi nati dallo studio dell’ecologia la utilizzano per rendere i dati riguardanti, l’inquinamento dell’ambiente, la distruzione degli ecosistemi, le rendicontazioni circa lo stato della biodiversità, l’utilizzo delle risorse energetiche, lo sfruttamento di quelle naturali e dei danni ambientali.


È quel giorno importante che cerca soluzioni possibili, alternative, in grado di supportare e salvare gli habitat, restituendo la voce non solo alle comunità scientifiche, istituzionali e imprenditoriali ma anche a quelle dell’arte, delle associazioni e di chiunque voglia sensibilizzare e stimolare un positivo cambiamento culturale in tema di ambiente.


La giornata si riporta alle realtà locali, attraverso le scuole, i dibattiti, la politica, le manifestazioni di piazza e il copia-incolla scaduto di qualche servizio televisivo che non riesce a contenere le differenze tra ambientalismo e attivismo popolare.


Si evidenzieranno i problemi e le necessità che sono dei cittadini, la difesa dei beni comuni e non quelli di chiuse e antiquate lobby partitiche che traboccano solo in occasione di tale anniversario.


È la giornata della resilienza, cioè di quella complessa prerogativa che hanno gli habitat di reagire, finché possibile, agli eventi naturali improvvisi, alle pressioni antropiche spesso dettate da certi abusi o dal crescente malaffare.


In tutto il mondo si parlerà di cambiamenti climatici, desertificazione e deforestazioni, di piccole e grandi terre unite sotto una bandiera comune con il patrocinio d’importanti sigle e con la partecipazione attiva della gente.


Questa giornata è un’occasione per riscattare attraverso la condivisione, la naturalità che abita i sogni e le idee, un attimo in più per comprendere in modo definitivo diritti e doveri  che ci competono e che la Terra non appartiene solo agli esseri umani.



Nel nome di Madre Terra

sabato 18 aprile 2015

Il sovescio

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leguminose da sovescio

leguminose da sovescio


Il sovescio è una pratica dell’agricoltura che consiste nell’interrare determinate colture, per aumentare e mantenere la fertilità nel terreno. Si effettua rivoltando le colture con corrette arature o trinciando parzialmente la coltura.


L’obiettivo di tale pratica è di migliorare e proteggere il suolo agrario. Il risultato di un sovescio razionale, è di aumentare la materia organica nel terreno, riequilibrando, quindi, il rapporto C/N, rallentare i fenomeni di erosione e mantenere i tenori dell’azoto nitrico. Con fitte semine può contenere, per mezzo delle radici le altre erbe spontanee e apporta miglioramenti della struttura e tessitura del terreno.


Il sovescio per antonomasia è quello che si pratica con l’interramento delle leguminose, quali, favino, trifoglio e veccia, tra tutte le più capaci a fissare l’azoto atmosferico. Con la decomposizione delle masse verdi della leguminosa si trasferisce, tramite una serie di scambi naturali, l’azoto dall’atmosfera al terreno.


L’importanza di quest’ultimo minerale è fondamentale per la ripresa vegetativa e per l’accrescimento. Praticando tale operazione, la percentuale di azoto che resta disponibile per un eventuale semina o trapianto, è molto alta (40 – 60%). Per tutto questo il sovescio è una delle migliori concimazioni che si conoscano in agricoltura biologica e in permacultura e ben si adattano alle buone pratiche agricole.



Il sovescio

sabato 28 marzo 2015

Aratura: una lavorazione utile

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agricoltura socialeL’aratro è lo strumento che rende il titolo alla lavorazione del suolo agrario. Aratro deriva dal latino aratron, una radice che si riferisce ai verbi di fendere, spingere, solcare.


È uno dei mezzi più antichi che l’umanità abbia creato. Si ara la terra grazie alle parti di tale strumento, un insieme di leve e lame ben bilanciate dall’uomo per aumentarne potenza e resistenza con il minimo sforzo.


Allora ecco che le zolle si tagliano e si rivoltano grazie alla superficie più ampia che lo caratterizza, il cosidetto versoio. Il versoio è la parte dell’aratro che ribalta quella fetta di suolo agrario, per molto tempo rimasta negli strati sottostanti e che richiede di essere irradiata dal sole.


L’aratura è quell’operazione colturale che ti consente di ripristinare gli scambi e le interazioni suolo aria, fondamentali a quell’equilibrio tanto aspirato di sostanza organica utile.


Con l’aratura, inoltre, ti puoi permettere di migliorare le proprietà fisiche e meccaniche del terreno, interrompere la continuità di un possibile stato di alterazione e quando si disgregano le zolle si rende il terreno meno coeso. Questa lavorazione ti facilita l’esecuzione dei successivi interventi colturali di affinamento e livellamento che permettono alle radici di espandersi.


Con l’aratura migliori la porosità del terreno, assestandogli gli spazi e la disposizione delle sue molecole, favorisci l’infiltrazione delle acque, previeni i ristagni idrici, i dilavamenti e i fenomeni d’erosione.


L’aratura perfeziona le caratteristiche chimiche di un terreno con l’interramento dei concimi organici, aumenta l’azione di pratiche quali sovesci e letamazioni, migliora l’assorbimento di elementi minerali importanti quali quelli meno mobili, come fosforo, potassio e calcio. Potenzia, inoltre, l’ossidazione e quindi la disponibilità degli oligoelementi e ne ostacola quei processi di riduzione ritenuti dannosi per le piante.


Grazie all’opera dell’aratro si favoriscono i processi di aereazione che stimolano l’attività dei microrganismi e s’intensificano i movimenti degli elementi nutritivi immobilizzati con il ciclo del carbonio.


Arare significa ridurre la flora spontanea, le emergenze delle cosiddette piante perenni esponendoli all’azione devitalizzante degli agenti climatici e quindi del loro potere germinativo.


L’aratura, infine, può specificamente preparare un’azione di limitazione nei confronti di organismi fitofagi rivelandosi efficace quando porta in profondità gli stadi svernanti di alcuni insetti svantaggiosi per le colture agrarie.



Aratura: una lavorazione utile

Aratura: una lavorazione utile

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agricoltura socialeL’aratro è lo strumento che rende il titolo alla lavorazione del suolo agrario. Aratro deriva dal latino aratron, una radice che si riferisce ai verbi di fendere, spingere, solcare.


È uno dei mezzi più antichi che l’umanità abbia creato. Si ara la terra grazie alle parti di tale strumento, un insieme di leve e lame ben bilanciate dall’uomo per aumentarne potenza e resistenza con il minimo sforzo.


Allora ecco che le zolle si tagliano e si rivoltano grazie alla superficie più ampia che lo caratterizza, il cosidetto versoio. Il versoio e la parte dell’aratro che ribalta quella fetta di suolo agrario, per molto tempo rimasta negli strati sottostanti e che richiede di essere irradiata dal sole.


L’aratura è quell’operazione colturale che ti consente di ripristinare gli scambi e le interazioni suolo aria, fondamentali a quell’equilibrio tanto aspirato di sostanza organica utile.


Con l’aratura, inoltre, ti puoi permettere di migliorare le proprietà fisiche e meccaniche del terreno, interrompere la continuità di un possibile stato di alterazione. Quando si disgregano le zolle si rende il terreno meno coeso. Questa lavorazione ti facilita l’esecuzione dei successivi interventi colturali di affinamento e livellamento che permettono alle radici di espandersi.


Con l’aratura migliori la porosità del terreno, assestandogli gli spazi e la disposizione delle sue molecole, favorisci l’infiltrazione delle acque, previeni i ristagni idrici, i dilavamenti e i fenomeni di erosione.


L’aratura perfeziona le caratteristiche chimiche di un terreno con l’interramento dei concimi organici, aumenta l’azione di pratiche quali sovesci e letamazioni, migliora l’assorbimento di elementi minerali importanti quali quelli meno mobili, come fosforo, potassio e calcio. Potenzia, inoltre, l’ossidazione e quindi la disponibilità degli oligoelementi e ne ostacola quei processi di riduzione ritenuti dannosi per le piante.


Grazie all’opera dell’aratro si favoriscono i processi di aereazione che stimolano l’attività dei microrganismi e s’intensificano i movimenti degli elementi nutritivi immobilizzati con il ciclo del carbonio.


Arare significa ridurre la flora spontanea, le emergenze delle cosiddette piante perenni esponendoli all’azione devitalizzante degli agenti climatici e quindi del loro potere germinativo.


L’aratura, infine, può specificamente preparare un’azione di limitazione nei confronti di organismi fitofagi rivelandosi efficace quando porta in profondità gli stadi svernanti di alcuni insetti svantaggiosi per le colture agrarie.



Aratura: una lavorazione utile

sabato 7 marzo 2015

La mimosa

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mimosePurezza, autonomia, vigoria, coerenza e unione: sono solo alcuni degli aggettivi che si associano al linguaggio del fiore della mimosa. In realtà questa essenza comunica molto di più se offerta come simbolo, nei giorni della sua antesi che coincide con la prima decade di marzo, periodo di eclissi, rivoluzioni e congiunzioni.


Scegliamo di descrivere questa fioritura per accostarla alla luna nuova di questo mese, a quella luna che stacca l’inverno per accedere alla primavera.


Tra i giardini dei primi giorni di marzo si respira questo passaggio, come un lento e moto di risveglio collettivo che non solo le piante manifestano.


La fioritura della mimosa, quindi, è il preludio all’intensità del nuovo sole. Le mimose scortano l’ultima notte della prima luna piena di marzo fino all’equinozio della sua seconda decade che coincide con l’evento del novilunio.


Sono i giorni in cui i pianeti si sintonizzano e ci restituiscono l’energia creativa e l’intervallo per seminare nuovi propositi.  Se ci fosse un oroscopo dei fiori, il segno della mimosa, forse, rappresenterebbe questo breve periodo d’amore.


 



La mimosa

venerdì 27 febbraio 2015

Quel ronzio silenzioso

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bottinatrice (ph M.Ciccarese)Senza fiori e polline le api non saprebbero come fare. Il nettare dei fiori che le bottinatrici raccolgono è fonte di sussistenza per questa specie.


Le api hanno una sorta di tasca che può contenere fino a poco più di una stilla di miele. Al ritorno al loro favo, le anziane api, spostano il prezioso bottino alle giovani operaie per trasferirsi il nuovo nettare, di bocca in bocca, per farlo diventare miele.


Ogni ape, goccia dopo goccia, depone il suo miele, fino a saturare ogni cella disponibile, mentre le altre operaie accanto vorticano le elitre per raffreddarlo e farne evaporare il surplus di acqua perché esso diventi più denso.


Nella produzione del miele, c’è un intima interazione con la fioritura, un lento trasloco che parte da una serie di metamorfosi e risvegli che solo un attenta osservazione può cogliere.


Il sole che attiva la fotosintesi clorofiliana è all’origine di tale fabbrica; un viavai di linfa, un po’di primavera, una felice apertura di corolle colorate e tutto scorre come natura richiede.


Il nettare, si definisce in botanica, come un liquido zuccherino che il fiore crea ed emette per attirare gli animali impollinatori, come lo sono le api.


Ogni tipo d’insetto, dunque, potrebbe essere attratto dal nettare. È un lavoro molto rischioso, per ogni specie, che deve quindi poter servirsi di leste ali per lavorare, per sfuggire ad un predatore o per ripararsi tra le foglie.


Le api hanno delicati mezzi per andare lontano, per passare al calice successivo, per non perdere l’orientamento, per ritrovare le loro partenze e ritornare senza problemi al calore della loro umile dimora.


Proviamo ad immaginare, adesso, il volo di ritorno dell’ape, appesantito dal suo pieno, da campo a campo, da città in città, tra polveri e molecole o mentre si concede una piccola sosta, per assetarsi da un rivolo di rugiada e adagiare il suo fragile addome su un fresco filo d’erba, proviamo ad essere una piccola ape per un attimo.


Pensiamo alla loro vitalità, al loro rapido adattamento, alla loro capacità di sopportazione e prendiamo esempio così come ci ripetevano durante le ore di scienza i migliori insegnanti.


Tutto il popolo delle api, meriterebbe un premio, per la  generosità, la diligenza e l’assiduità al lavoro, per quell’umile ronzio silenzioso che ancora possiamo sentirci attorno e che ci aiuta ad riequilibrare il peso di un microcosmo ormai in sgradevole crisi.



Quel ronzio silenzioso

lunedì 23 febbraio 2015

Evento: “Sapori e saperi del mangiar sano”

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pieghevoleOgnuno ha in serbo una personale formula che gli restituisce un valore, non virtuale, di benessere e salubrità. Siamo alla continua ricerca di un felice legame, di un rapido riepilogo, così come si potrebbe enunciare, tra i lumi della scienza e della coscienza, tra le memorie della cultura o della natura che ci sorprende.


L’analisi riguarda il rapporto tra “Sapori e saperi del mangiar sano” e rappresenta anche un’osservazione dettagliata, che istruisce e appaga non solo gli addetti al settore ma anche la curiosità dei consumatori.


Questa ricerca è il titolo dell’evento che ci vede impegnati a svolgere migliaia di slide che ci competono così come si presenta in questi giorni di cui si allega la locandina.


È un ciclo d’incontri sull’alimentazione e, perché no, anche dell’ambiente, dell’uso sostenibile di un territorio e dell’etica del produrre in modo naturale. In particolare per questo si evidenzia la relazione del 7 marzo 2015 sulle coltivazioni biologiche.


Una serie di meeting, quindi, intesi come corollario utile per il nostro habitat, che sembrano quasi come nutrienti portate di cibo, che iniziano dal pane fino al dolce, o semplicemente come ricche pagine di un’esposizione cui i loro ideatori invitano cordialmente a leggere e partecipare.


Questo il ciclo completo degli incontri:


pieghevole 1


ciclo incontri Saperi e Sapori del mangiar sano



Evento: “Sapori e saperi del mangiar sano”

venerdì 20 febbraio 2015

Quel Cavolo di Ortaggio

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cavoliverzaIl cavolo verza (Brassica oleracea L. var. sabauda L)  è parente di molti altri cavoli conosciuti, da quello Nero a quello di Bruxelles. Tale ortiva si adatta ai climi temperati e anche se diventa più appetitoso quando s’intenerisce con il freddo; non sopporta, in ogni caso, qualsiasi tipo di gelate.


Si può trapiantare fino alla prima decade di settembre, a seconda dei climi e del terreno. Il terreno che preferisce la coltura è quello profondo, ben strutturato, non asfittico, possibilmente dotato di impianto irriguo a reazione Ph lievemente alcalina o prossima alla neutra.


Il cavolo verza inizia la formazione della sua testa quando il suo collo raggiunge un altezza di qualche decimetro; è questo il momento adatto per liberarlo dalla flora spontanea che gli cresce accanto e che gli sottrae elementi nutritivi, con opportune rincalzature.  Se è il caso, si effettuano anche irrigazioni, senza esagerare con la frequenza, magari localizzandola con impianti a goccia su un sesto d’impianto di circa due piante a metro quadrato. La raccolta va da settembre ai primi freddi quando coltivati in pieno campo e la sua testa raggiunge le dimensioni ottimali. Dopo almeno due o tre mesi dal trapianto e si possono raccogliere fino a 5-10 kg per metro quadrato, ma questo dipende da molti fattori.


Nel caso in cui il vostro amato cavolo verza subisce un non identificato attacco di parassiti, rivolgetevi ai tecnici esperti del settore, in ogni caso è bene  adottare i metodi di agricoltura biologica e naturale, utilizzando sempre la razionalità del buon orticoltore di famiglia.



Quel Cavolo di Ortaggio

sabato 14 febbraio 2015

La Pignata

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la pignataProverbio Salentino: Li uai te la pignata li sape la cucchiara ca li ota (I guai della pignatta li conosce il suo mestolo che li gira).


La pignata è una pentola di terracotta smaltata, forse precorritrice della pentola a pressione, un tempo adoperata per conservare il grasso, la sugna o lo strutto. Un tegame che ricorda la forma tronfia e panciuta della pigna, con due solide fettucce per asole, ideale per lessare un misto di legumi durante i giorni feriali escluso la domenica che è dedicata alla pasta “fatta in casa”.


La pignata è anche un piatto tipico della civiltà rurale salentina che occupa un posto nella categoria dei cibi economici e lenti, singolare anche nel metodo di preparazione che potrebbe essere anche un ottimo esercizio di meditazione.


Il rito dello “spignattamento” inizia un giorno prima, con un opportuno ammollo acquatico di piselli, fave e ceci di stagione; consiste in una cottura moderata e distante dal fuoco diretto, su braci di legno d’olivo, almeno per quattro o cinque ore, fino a quando il duro legume si trasforma in una massa morbida e cremosa aromatizzata con porro, cipolla o pomodoro, con aglio e sedano, con rosmarino, salvia, finocchietto selvatico.


La pignata può essere annoverato come un magnifico esempio alimentare salentino e il gorgoglio del ribollir di fagioli, accompagnato da cicorie selvatiche, da un filetto d’olio, da cubetti di pane fritti (muersi), peperoncino e cipolline in agrodolce va a costituire uno dei piatti più remoti che il Salento conosca.


La nostra pentola dopo innumerevoli cotture, come tutte le cose ricavate dalla terra, manifesta i primi sintomi di decadimento, inizia a crepare fino al momento che non può essere più utilizzata tra gli utensili di casa e può essere perfino riciclata per altri usi. In alcuni popoli, come Spagna, Messico e Italia, nella prima domenica della Quaresima, la cara pentolaccia diviene un gioco simbolico che richiama il rito del fuoco che brucia il vecchio anno la cui fine coincide con l’equinozio primaverile.


Nel Meridione d’Italia il gioco comincia nel tentar di colpire, con un apposito cucchiarone la vecchia pignata. L’attore del gioco è il “pignataro” con in mano un’incarbonita pentola che vortica pericolosamente burlando la percezione uditiva con piccoli e fugaci rintocchi sul pavimento il “bastonatore” che cerca di colpire con gli occhi bendati e con l’intuito tra gli spettatori tifosi. Lo spasso finisce nel momento in cui lo stremato di turno colpisce e apre la pentolaccia, facendone cadere gli attesi premi che contiene, dolci e caramelle, un tempo immagini della buona semina e del buon auspicio.


 


 


 



La Pignata

sabato 7 febbraio 2015

Le cultivar d'olivo salentine! Identità dubbie?

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ulivi di LeucaC’è una biodiversità che anima il Salento, un catalogo di razze e varietà in attesa di essere riprese e rivalutate. Le diversità varietali si rannicchiano ormai tra i piccoli spazi che le comunità rurali hanno deciso di riservare. Quando si descrivono i caratteri naturali di un essere vivente, si ridestano prodigiosamente la memoria e il luogo d’origine della loro evoluzione, insieme all’affezione e la volontà di riprodurli.


I caratteri della pianta interagiscono, seppur in modo indiretto, con quello dell’uomo che li ha generati migliorandoli con l’antico rito dell’innesto, un atto che tra le comunità rurali appare oggi come un esercizio, quasi zen, purtroppo in via di estinzione.


Eppure, grazie all’opera degli antichi innestatori, che milioni di ulivi caratterizzano le tonalità del Salento; grazie ad essi abbiamo la facoltà di ammirarli, rispettarli e riviverli.


Per gli innestatori c’e un periodo esatto per assegnare una nuova gemma sul fusto selvatico, per sfruttare il movimento linfatico che erompe dai suoi vasi, poco prima che la pianta si risvegli dal suo torpore. Sono i momenti in cui si decidono le varietà più gentili di frutto più gustose e durevoli al clima e al suo cambiamento, ai batteri, agli insetti e alle virosi.


La pianta d’ulivo cerca di resistere anche alla sua stessa dimora, cercando di dissetarsi, insinuando e rivoltando le radici tra le fessure della sua roccia.


Per un ulivo secolare questa ricerca è uno sforzo anche per esprimersi e raccontarsi, ripiegandosi infinite volte su se stesso. Quando si accede nella dimensione di simili movimenti, tale percezione si accresce sempre di più e si rivive per ogni nostro delicato passo la loro incredibile genesi.


Con il percorso proposto, si percepiscono le differenze tra le colonie selvatiche, a sesti d’impianto irregolari, le più antiche e affascinanti, innestate accanto ai ruderi dei monasteri o ai siti importanti di scambio commerciale e quelle pur secolari e moderne a sesti regolari, in fila come milizie per un altro tipo di olivicoltura.


Nella storia olivicola della penisola salentina le due varietà più innestate, sono la Cellina di Nardò e la Ogliarola Leccese, due cultivar a confronto che meriterebbero molto più riguardo rispetto a quello odierno almeno per la loro storia, oltre che per la loro bellezza.


Probabilmente quelle che molti tradizionalmente annoverano sotto il nome di Cellina di Nardò, ad esempio, cultivar autoctone, che pur essendo molto simili, siano fondamentalmente diverse da quelle presenti nella zona di Gallipoli o di Otranto. Siamo proprio sicuri che tutti gli ulivi salentini siano retaggio di due sole varietà prevalenti? Potrebbe essere questo un insolito abbaglio che gli esperti si portano appresso da secoli?  


 



Le cultivar d'olivo salentine! Identità dubbie?

sabato 31 gennaio 2015

Il Carciofo

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carciofoIl nome salentino del carciofo, Cynara cardunculus L. scolymus, è “ scarcioppula” o “scarcioffula”come il napoletano; in siciliano si chiama cacocciulu, mentre in barese scarcioff e in Abruzzo scarcioffl. È proprio dall’arabo al-kharshuf, cioè “pianta che punge” e dallo spagnolo “alcachofa” che i meridionali d’Italia lo fanno derivare.


Una pianta, i cui caratteri botanici si adattano proprio al Sud dell’Italia, regione che riesce a produrre la maggior quantità in Europa, per le sue condizioni pedo climatiche favorevoli alla cultura.


Il carciofo, si coltiva infatti, con temperature miti e umide e riesce a resistere a temperature vicine a 0°, su terreni fertili e ben strutturati.  Conosciamo tre varietà botaniche nell’area mediterranea il cardo selvatico o carduccio, spontaneo, i cui fiori erano utilizzati per cagliare il formaggio, poi si conosce quello coltivato e quello domestico.


Questi ultimi derivano proprio dal primo, quello silvestre da cui prendono diverse morfologie a seconda delle varietà. Una specie perenne, molto coltivata nella Puglia Brindisina, dell’alto Salento e in Sicilia, che forma rizomi e getti di gemme chiamati carducci.


Sono molto belli i capolini azzurri dei carciofi, un’infiorescenza chiamata calatide con ricettacolo carnoso setole traslucide a formare nell’insieme la caratteristica peluria. Le bratte coriacee e squamose, imbricate a mo d’involucro, una sull’altra, s’inteneriscono quanto più la loro disposizione è interna a costituire il cuore edule della pianta, vera bontà utilizzato in migliaia di modi dalla cucina della dieta mediterranea.


Nella mitologia il carciofo nasce per volere di un Giove alterato che, per punire la ninfa Cynara, dal folto capello grigio cenere vicino al verde e dagli occhi di mammola, la trasfigura in un bocciolo irto di spine. Probabilmente sarà anche questo il motivo che le persone dal carattere aspro e spigoloso ma dal cuore morbido come una naiade, si associano alla pianta del carciofo, che evidentemente si distribuiva alle truppe dell’antica Grecia, per le sue innumerevoli qualità che elargivano quali la vitalità e l’audacia.


 



Il Carciofo

domenica 25 gennaio 2015

L’agricoltura sociale

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agricoltura sociale ph Mimmo Ciccarese


Quando si parla di agricoltura sociale, ci si riferisce a una possibilità produttiva che non è solo retaggio di una precisa scelta etica ma è anche riguardo verso gli equilibri naturali che interessano ogni genere di collettività.


La vivacità dell’agricoltura sociale si espande e si orienta verso le aziende biologiche, verso i gruppi d’acquisto e il turismo solidale per creare una salda rete attiva contro l’omologazione dei consumi e le strutture che limitano le libertà delle civiltà rurali.


Con tali termini, i saperi e i sapori tipici, con il loro “chilometro zero”, la biodiversità e quindi la riproduzione di valori sussidiari come solidarietà, rispetto dei luoghi, del patrimonio artistico o architettonico prendono aspetto con il sostegno reciproco.


Nell’agricoltura sociale ritrovi il termine di mutualismo tra produttori e consumatori e il termine simbiosi riacquista la sua originale purezza. L’utenza della rete di fattorie sociali si amplifica e dimostra come un territorio può convivere con la produzione agricola e con ogni tipo di servizio.


Questo tipo di agricoltura cura le piaghe delle crisi di valori e di quelle molteplicità in via di estinzione che le banche dei semi rivendicano. Questo esempio diventa perciò “cura per gli altri” e ogni forma di semina un evento che unisce la ricerca e il ripristino di antiche varietà con il sano proposito di raccogliere naturalità dalle nostre produzioni.


L’agricoltura sociale che si occupa di vulnerabilità dei territori o di debolezze dell’essere urbano è certamente quella che si riassume nel fondamento dei valori e dei principi della Carta costituzionale che evidenzia il contenuto dell’art 3 che impone alla Repubblica di rimuovere i freni di ordine economico e sociale che ostacolano il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Simile modello produttivo è rafforzato con quello dell’art. 44 che rivolge l’intervento pubblico nel settore agricolo verso la cura della qualità del territorio e al perseguimento dell’equità sociale.


Con tale scelta si offre, quindi, una valida opportunità per recuperare il concorso tra le imprese agricole, tra gli esperti del settore del bio, tra le amministrazioni, le strutture di accoglienza turistica o i parchi naturali. Con tale cooperazione, inoltre, legami si saldano e aumentano il valore di fiducia, aiutano la cultura e la civiltà rurale a migliorare ciò che si riassume, in poche parole, come “qualità della vita”.



L’agricoltura sociale

sabato 17 gennaio 2015

Gli Agrumi nel Mediterraneo

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agrumiAlla sottofamiglia Aurantioideae della famiglia delle Rutacee, fanno parte i generi Citrus, Fortunella, Poncirus. I più noti sono l’arancio dolce e amaro, il mandarino, il limone, il pompelmo, il cedro. Di questa sottofamiglia ne esistono molte varianti nell’ambito dell’infiorescenza e del frutto moltissimi ibridi. I frutti che traggono l’origine dall’Asia minore, dalla Cina, dall’India, hanno raggiunto l’Europa con i Romani e in particolar modo per opera dei portoghesi.  La Sicilia è il maggior produttore italiano di agrumi che ne rappresenta circa i due terzi.


La leggenda narra che la dea terra Gea, per celebrare le nozze tra Giunone e Giove produsse degli alberi dai pomi dorati, simbolo di amore e fecondità. Giove preoccupato per il loro plausibile furto custodì gli agrumi in un meraviglioso giardino con a guardia le ninfe Esperidi, Aretusa, Esperse ed Egle e il drago Ladone. Il mito racconta che Ercole, nella sua undicesima fatica, mandato da Euristeo, avebbe ucciso il drago, soggiogato le ninfe e rubato i pomi.


Da questo racconto si dedurrebbe il senso augurale, connesso al matrimonio, come fregio di fecondità che si conferisce ai fiori d’arancio dai tempi delle crociate ai giorni nostri.


Sono molti gli stemmi dell’araldica di città e famiglie, che riportano il simbolo dell’agrume alcuni sono in Sardegna altri in Sicilia. Molto conosciuto è quello di Rodi Garganico, terra produttore di arancio, a indicazione geografica e denominazione protetta.


Frutti alleati del peso forma con vagone carico di fruttosio, sali minerali, acidi organici, fibre e vitamina c. Una forte dose di antiossidanti in grado, secondo i nutrizionisti, di contrastare l’invecchiamento e aumentare il sistema immunitario. Poche kcal per 100 g che suddividiamo in bionde, come naveline, valencia e pigmentate come il sanguinello, il moro e il tarocco nel caso delle arance. Gli agrumi sono ricchi di oli essenziali amarognoli che contengono tra le cellule delle bucce, una mescla di sostanze in grado di purificare pelle ed altri organi specialmente se gustati nella macedonia o nell’insalata.


 



Gli Agrumi nel Mediterraneo

sabato 10 gennaio 2015

Il fico mandorlato, analisi del suo valore

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fico mandorlatoPer il dizionario dei luoghi comuni il fico secco ha valore quasi pari a zero. Niente di più inesatto. In questo periodo di dolcezze, specialmente se mandorlato o spolverato di cacao, il fico secco vale molto di più. Questo  frutto avrebbe avuto, invece, più virtù nei tempi in cui i contadini, per ripartire di pura energia produttiva, si colmavano prima le tasche e poi lo stomaco. Quanti fichi secchi bastavano per reggere la fatica tra i campi per una dura giornata? Tutto dipendeva dalla personale dispensa del lavoratore. La famiglia, doveva, per questo, pianificare il numero di fichi da essiccare in funzione di tanti fattori e ridistribuire la provvista, in base alle pretese di tutti i suoi componenti.


Tra le operazioni di zappatura e di potatura non c’era solo ciò che si definisce oggi in agronomia come unità lavorativa uomo (ULU). Queste operazioni oggi si regolano meglio nel mondo del lavoro distinguendolo tra generico e specializzato.


Le calorie sono state l’unità di misura per il lavoratori dei campi. Se la giornata di un potatore sarebbe di 4 ore lavorative allora si potrebbe azzardare perfino la misura del suo fabbisogno calorico, un po’ come si fa per quantificare l’energia dal combustibile da riscaldamento. È ovvio che i principi di calcolo della paga quotidiana nel settore del lavoro diventano molto più complessi e comparare questi conteggi, oltre che doveroso, diventa oneroso.


Ci limitiamo perciò ad assorbire le informazioni nutrizionali per cui, secondo alcuni, un solo fico secco mandorlato , del peso di 10-12 g , darebbe circa 30 calorie (270-300 calorie ogni 100 g), qualcosa in più rispetto ad un fico appena colto.


Tali calorie giungono quindi, per la maggior parte con i carboidrati. Esse terrebbero in attività per circa un’ora un potatore adulto di corporatura media, per più di quattro ore un impiegata accanto al suo Pc, poco meno di mezzo tempo per un buon mediano di spinta. Per scrivere un articolo come questo ci vuole almeno un’ ora, secondo voi, avrebbe almeno il valore di un fico secco?



Il fico mandorlato, analisi del suo valore

martedì 6 gennaio 2015

La riscoperta della Befana

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024C’è una leggenda popolare che accomuna la figura dell’amata Befana con quella della Babushka russa. Entrambi sono vecchiette cariche di doni che giungono quando la stalla del Bambinello è ormai svuotata. Da quella consegna mancata l’imprendibile signora erra ancora per le case alla ricerca di nuove nascite da onorare.


Per alcuni la vecchietta che verrebbe fuori, al gelo del solstizio, altro non è che una ripresa pagana che sopravvive sin dai tempi più remoti e coincide con una celebrazione ciclica e lunare che consisteva nell’incendiare un pezzo di albero decadente, simbolo di una storia ormai invecchiata.


Il culto appare così con la lenta combustione dei desideri inappagati dell’anno trascorso ed esorcizza le future privazioni materiali e i possibili insuccessi. Allora, anche il carbone, nero avanzo del rituale è un omaggio poco gradito per chi si aspetta delle cose buone.


Per alcuni, la fata-strega, sarebbe la nipote di un santo o la consorte di un orco che abita di solito in luoghi sacri e inaccessibili, disposta a ricambiare virtù e comportamenti con doni di pregio oppure pietrificare con il suo sguardo non sempre benevolo.


In alcuni popoli, il potere del rito coincideva perfino con l’origine e la rinascita della natura e si celebrava in quelle notti incantate che seguivano il solstizio d’inverno, filtrandone la ricorrenza al cospetto di un’ennesima dea madre.


I romani e i germanici, con queste cariche d’energia immaginavano una legione di figure femminili volteggiare sulle semine autunnali per auspicare e proteggere i raccolti.


Il mito si riprende quando alla guida delle metafore si ritrova l’adorata Diana essenza divina della fertilità; la figura sarebbe divenuta un fantoccio pagano incendiato poi con le mescolanze dei credi religiosi dai tempi della stregoneria medioevale fino a quelli odierni.


Il giorno dell’Epifania è tutt’altro che invisibile, si attende con ansia e fiducia, non solo dai bambini, tra i consumi smodati dell’essere urbano e l’ineffabile decadenza sociale. La vegliarda più che assonnata, a bordo della sua magia, potrebbe rappresentare l’espressione di un risveglio etico oltre che una sana riscoperta dei cicli naturali



La riscoperta della Befana