domenica 30 novembre 2014

Li tiaulicchi Scattarisciati

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peperonciniA volte non immaginiamo proprio come un ortaggio semplice possa diventare un contorno squisito. Basta solo avere un po’ di buona volontà e insieme al pomodoro, il peperoncino, che i salentini chiamano “tiaulicchiu”, finisce saltato in padella nell’olio d’oliva da Cellina di Nardò.


Il piccante su piccante, dunque, potenziato da una puccia rossa con le olive nere, uno spicchio di pecorino stagionato, da latte di pecora Moscia leccese, e un buon bicchiere di Negroamaro, di quello vigoroso, a volte, è sufficiente per sentirsi felice monarca per una sera.


Cenavano così dal tempo del Regno delle Due Sicilie, o forse ancor prima, le comunità rurali del Salento, ilare penisola e robusto torace del meridione pugliese.


Forse è il caso di dirvi come si prepara” lu tialicchiu scattarisciatu”. Prima è bene saper che il termine “scattarisciare” nel dialetto salentino equivale alla definizione italiota di scoppiare e saltare contemporaneamente. Quel lieve scoppiettio necessario che decreta la cottura definitiva del “tiaulicchiu” è sostanziale, sarebbe l’inizio dell’apoteosi simile a quella che ricorda l’antico detto: “La morte de lu purpu è la cipuddrha” (la cottura risolutiva del polpo è la cipolla).


Allora prendete qualche pomodoro che vira al rosso, leggermente acerbo, la via di mezzo che si sposa con il peperoncino rosso splendente, un po’ di sale, magari un po’ di pepe o di basilico. In una padella versare l’olio, e quando è ben rovente, senza farlo sfumare, immergeteci i cornettini piccanti fino a quando il loro scoppiettio sembra una sommossa. Nello stesso olio friggete i pomodori. Scolate l’olio in eccesso unite il resto disponibile. Cottura un quarto d’ora circa. Semplicissimo.



Li tiaulicchi Scattarisciati

domenica 23 novembre 2014

Tre su le cose ca te nnuticano lu core: Le meddrhe, le cutugne e le malu parole

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Tre su le cose ca te nnuticano lu core: Le meddrhe, le cutugne e le malu parole (dittero salentino),Trad.:ci son tre cose che ti fan venire un groppo: le nespole, le mele cotogne e le cattive parole.


Mespilus germanica è il nome latino delle meddrhe salentine. In italiano sarebbero le nespole comuni e non quelle giapponesi con cui condividono solo la famiglia.


Le nespole comuni sono difficili da deglutire per la durezza e il sapore astringente della loro polpa che è al pari di quella delle cotogne. Questi frutti appena raccolti nel tardo autunno dovranno essere perciò “ammezzite” nella paglia, o comunque in un ambiente secco e ventilato.


Con l’ammezzimento s’avviano trasformazioni enzimatiche, di natura fermentativa, che le inducono a virare il colore della loro buccia bruna dal chiaro allo scuro. Quando ci sembrano rammollite al tatto ed emanano un gradevole profumo, significa che sono pronte per essere consumate. Poppandone la polpa, dopo aver tolto il picciolo, poi, dovrebbero restare i semi duri come pietre non digeribili.


I greci le consacravano al dio Crono e le utilizzavano come arma segreta contro le negromanzie degli stregoni. In ogni caso, la vera grande magia che offre questo frutto è quando si gusta sotto forma di dessert o marmellata.


 


 



Tre su le cose ca te nnuticano lu core: Le meddrhe, le cutugne e le malu parole

giovedì 20 novembre 2014

il 21 novembre è la Giornata nazionale degli Alberi

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Ph. di Mimmo Ciccarese Ph. di Mimmo Ciccarese


Uno dei culti più remoti dell’umanità è proprio la festa dell’albero. In Italia oggi si ricorda questo legame celebrandolo il 21 novembre. Con tal evento si celebra non solo la cultura ma anche il risveglio sociale ed ecologico di un popolo.


Anche tra i primi popoli, già conosciuti per il loro inizio democratico e civile, l’albero era considerato un elemento divino, un monumento da benedire, un punto di riferimento oltre che una fonte di nutrimento.


Tra i precursori della festa ci furono i romani con il culto dell’Arbor Intrat o della Festa Lucaria di luglio, poi i greci e forse ancora prima i popoli celtici e del nord dell’Europa con quello di Odino.


Per ogni popolo si è sempre assegnato un albero, per ogni radice, quindi, un parto, un simbolo, un’essenza o un ricordo. 


Si dice che a vegliare su ogni residente in Puglia ci siano almeno quattro olivi secolari con tutto il loro valore. Per i pugliesi attraversare le loro forme o le loro cavità equivale a un buon auspicio, un rituale che serve ad assorbire tutta la loro energia utile per difendersi e scongiurare ed esorcizzare le cattive intenzioni.   


Eppure d queste relazioni se ne parla davvero poco. La simbiosi uomo-albero è un dialogo ormai quasi ignorato, ce ne accorgiamo sempre e solo dopo la sua mancanza.


Qualcuno, all’opposto, festeggia l’abbattimento di un albero. Per la cronaca, sembrerebbe quasi un rituale, una consuetudine, non tanto propiziatoria, quella di sopprimere essenze vegetali, a volte perfino monumentali, per concedere il posto ad altri spazi artificiali. Spesso si fa senza parsimonia, con palese cupidigia, per smania di potere, attraverso decisioni superficiali o irrazionali.


L’educazione per il bene degli alberi parte sempre in modo corretto tra i primi insegnamenti, ma molte scuole non hanno alberi o se l’hanno sono spesso sottovalutati o trascurati


In Italia, la festa degli alberi non è una novità. Si celebra fin dalla fine dell’ottocento, fu istituzionalizzata con la legge forestale del primo ventennio del novecento, poi subito dopo la seconda guerra mondiale fino al 1979 quando fu demandata alle regioni. La legge n. 113 del 29/01/92 (legge Rutelli) obbliga ogni Comune alla messa a dimora di un albero per ogni neonato subito dopo la sua annotazione anagrafica. Una legge più che civile che purtroppo non ha trovato tantissimi riscontri e applicazioni.

Oggi è regolamentata con la legge del 14/10/2013 nell’art. uno si parla di norme che regolano la giornata nazionale degli alberi: ”La Repubblica riconosce il 21 novembre quale «Giornata nazionale degli alberi» al fine di perseguire, attraverso la valorizzazione dell’ambiente e del patrimonio arboreo e boschivo, l’attuazione del protocollo di Kyoto, ratificato ai sensi della legge 1º giugno  2002, n. 120, e le politiche di riduzione delle emissioni, la prevenzione del  dissesto  idrogeologico  e   la   protezione   del   suolo, il miglioramento  della  qualità  dell’aria,  la  valorizzazione  delle tradizioni legate all’albero nella cultura italiana e la  vivibilità degli insediamenti urbani”.


E allora ecco che il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del territorio e del mare realizza in collaborazione con gli enti preposti alla formazione, quali università, scuole di ogni ordine e grado eventi ed iniziative promozionali per far sapere del nostro sistema boschivo, per definire meglio i termini della tutela dell’ecosistema, il rispetto per le essenze arboree, gli equilibri tra le comunità biotiche, l’educazione civica e ambientale, per “stimolare un comportamento quotidiano sostenibile” affinché la biodiversità sia conservata e avvalendosi delle risorse  umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza  pubblica”.


Lo stesso regolamento riporta: “In  occasione  della celebrazione della Giornata le istituzioni scolastiche curano, in collaborazione con i comuni e le regioni e con il Corpo forestale dello Stato, la messa  a  dimora in aree pubbliche, individuate d’intesa con ciascun comune, di piantine di specie autoctone, anche messe a disposizione dai vivai  forestali regionali, preferibilmente di provenienza locale, con particolare riferimento alle varietà tradizionali dell’ambiente italiano….”.


La celebrazione del 21 novembre eredita per questo motivo quella coscienza ambientale, ecologica e civica. È uno stimolo ed un’occasione per gli italiani per compiere una buona azione, per accrescere il patrimonio arboreo o del bosco, per difenderlo e restituirlo alle comunità.


Dopo l’entrata in vigore del protocollo di Kyoto, le essenze vegetali di ogni specie, quali nostre utili alleate per mitigare gli effetti del gas serra, saranno valorizzate proprio così, con una semina quotidiana per ogni tipo di habitat. Quale migliore strategia? Piantare un albero è ormai diventato una necessita.



il 21 novembre è la Giornata nazionale degli Alberi

venerdì 14 novembre 2014

L’Alberello Pugliese, identità vitivinicola

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ph. Mimmo Ciccarese ph. Mimmo Ciccarese


Le nostre viti ripiegate sui brevi tramonti di novembre indossano ancora il calore delle loro vivaci foglie che quest’anno non hanno proprio intenzione di cadere proponendo un’altra entusiasmante immagine agli appassionati del buon vino.


Sono due aspri toraci nodosi di legno avviticchiati senza governo tra gli spazi rurali delle nostre più tradizionali vigne che aiutano a contare solo tre gemme per branca su ogni sperone, giusto quelle che bastano per la buona produzione d’una particolare forma d’allevamento che tutti chiamano alberello pugliese.


Un portamento tipico così vetusto che se ne potrebbe ripercorrere l’età semplicemente misurando i tagli d’ogni invernata lungo ogni sua freccia legnosa; un’adozione che risale alla seconda metà dell’800 quando s’introdussero in Europa le viti selvatiche americane resistenti alla fillossera, un genere d’insetto appartenente ai Rincoti omotteri che in quel periodo aveva falciato troppi vigneti.


È un vigneto che nonostante computi ormai un bel numero d’assenze sul suo sesto d’impianto, quasi irregolare, garantisce e ributta ancora tralci così vigorosi che giungono a sfregarsi a vicenda ed esprimere con il pianto linfatico un evidente stato di sviluppo e di generosità.


Per il viticoltore è giunto quasi il tempo di potare, di razionalizzare la crescita d’ogni alberello e di ravvivare sulle produzioni fruttifere i futuri scambi tra chioma e radice che assicurano il dinamismo e la nobiltà del suo lavoro.


Si pota per separare o scegliere le gemme migliori, ancora dormienti, non rigonfie di buone promesse, per riavviare la direzione del fluido carico di sali minerali provenienti dall’assorbimento radicale e segnare un momento autunnale importante per l’identità vitivinicola del Mezzogiorno.


 



L’Alberello Pugliese, identità vitivinicola

venerdì 7 novembre 2014

L'albero dell'Acacia immortale

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acaciaLe acacie sono un genere di piante appartenenti alla famiglia delle Mimosacea  ma non sono le mimose propriamente dette. Nei nostri habitat tra le piante più note di questo genere si riferisce alla specie Robinia pseudoacacia con cui non hanno niente a che fare. Tra esse, molto più conosciuta sarebbe invece la gaggia (Acacia farnesiana L.) ma oltre ad essa di acacie se  ne conoscono molte di più.


Un vasto genere di acacie , quindi, molto simili tra loro ma piuttosto diverse per i botanici, non ci si può sbagliare. Per la scienza ci troveremmo al cospetto di una ramificazione che classifica circa 1300 specie di cui molte originarie del continente oceanico, tropicale africano, arabo, asiatico e americano. In Puglia ne esistono eccome! Le ritroviamo lungo i bordi delle sue coste joniche o a sprizzare di ciuffi dorati e d’intenso profumo quegli ormai rari scampoli di macchia mediterranea rimasti a rendere il territorio veramente speciale.


Un viale molto bello si riscontra nel bel mezzo dell’area naturale protetta del bosco delle Cesine percorrendo la litoranea adriatica salentina. Quando le sue infiorescenze sono bianche, diventano simbolo d’amore platonico altrimenti rappresentano la purezza e l’immortalità.


In ogni caso i suoi luminosi capolini gialli, dall’elevato valore simbolico, sarebbero da mostrare con fierezza come un magnifico fiore all’occhiello di un territorio. Tale pianta è un’icona che trae origine anche dall’etimo che l’ha generato così caro e sacro perfino agli antichi egizi. La combinazione dei suoi colori sarebbe invece considerata perfino come buon augurio dagli sportivi australiani.


Il duro legno dell’acacia è così pregiato tanto da essere impiegato perfino, secondo la Bibbia, per modellare l’Arca dell’Alleanza e ancor prima dagli egizi per rinforzare le loro tipiche barche da trasporto.


La capacità delle radici di esplorare il terreno di habitat difficili annoverano le acacie  tra le essenze meglio preferite dalla selvicoltura e dal vivaismo specialmente quando si associano a tigli, pini e querce. Questa pianta riesce a ripopolare incendi boschivi e come tutte le leguminose, le loro radici riescono a fissare in gran quantità l’azoto atmosferico nel terreno, elemento utile per l’ecosistema.


Per questo motivo e per via della loro dominanza sulle altre specie vicine sono viste da qualcuno come un demone in terra da eradicare. Si è discusso sul valore e sugli svantaggi del loro sviluppo ma quello che è certo che sarebbe un vero peccato privarci della loro presenza anche perché darebbero riparo a insetti e uccelli utili ai quei delicati equilibri ecologici che conosciamo.



L'albero dell'Acacia immortale

giovedì 6 novembre 2014

Il primo Globetrotters: LUIGI MASETTI

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Pioniere dei viaggi avventurosi e protagonista di grandi imprese, nel 1893 compì il viaggissimo Milano-Londra-Chicago-Londra-Milano in bicicletta. Luigi Masetti era un aedo del viaggio, un eroe delle strade sterrate, un biciclista (così si chiamavano all’epoca i ciclisti) che non tardò a destare entusiasmo e curiosità nelle masse al suo passaggio.


Oggi sarebbe considerato uno spirito libero anzi a dirla tutta – qualcuno l’ha definito l’anarchico delle due ruote – ma non è l’unico primato che spetta a questo insolito personaggio che si può considerare a giusta causa, il primo “cicloviaggiatore” del quale si abbia memoria.


Il diario del suo viaggio venne pubblicato a più episodi sulle pagine di un appena nato Corriere della Sera e un suo dagherrotipo fu pubblicato sulla già allora prestigiosa rivista del Touring Club Italiano.


Nato nel 1864 in un piccolo centro del Polesine, Trecenta in provincia di Rovigo, Masetti ben presto è costretto a trasferirsi a Milano. In quel periodo il capoluogo nel lombardo erano già presenti le prime fabbriche di biciclette che contribuiranno a rendere Milano una delle capitali del ciclismo europeo da qui il suo interesse – che poi sfocerà in una vera e propria passione – per il “biciclo” e sempre da qui inizierà la sua personale esplorazione per il mondo a cavallo della sua bici.


Saranno molte le sue imprese che per l’epoca si potrebbero definire dei veri e propri “raid” in bicicletta: Luigi Masetti attraversa Stati Uniti, Francia, Spagna, Germania, Russia, Medio Oriente; durante questo suo viaggio, si dice che abbia incontrato il presidente degli Stati Uniti e conversa serenamente con Tolstoj.


Partecipa alla prima Milano-Torino, a diversi “criterium” (un particolare tipo di gara in cui viene ripetuto più volte lo stesso giro) su pista al Trotter milanese e in occasioni come queste, stringe amicizia con un noto nome del giornalismo italiano: Eugenio Torelli Violler, fondatore e direttore del Corriere della Sera.


Il giro delle gare ben presto inizierà a stargli stretto, il suo spirito indomito e libero lo spinge sempre più ad intraprendere sentieri che lo porteranno sempre più lontano dai suoi luoghi natii. Nel 1892 compie un giro cicloturistico d’Europa (Milano-Parigi-Berlino-Vienna-Milano), ma è nel 1893 che compirà il viaggio che lo consegna definitivamente alla storia: il “viaggissimo” così sarà battezzata la sua impresa che lo vedrà partire da Milano arrivare a Londra, attraversare l’oceano Atlantico toccare New York e poi dirigersi verso i grandi laghi del nord America, puntare su Chicago e ritornare a Milano.


A questo seguiranno altri “viaggissimi” come: Alpi-Piramidi-Milano, Ceuta Capo Nord – Bosforo.


Masetti studia i suoi percorsi, li pianifica e li compie con lo spirito di un vagabondo assetato di conoscenza e di sapere, aspetto che riuscirà ad arricchire con i suoi incontri con popolazioni e culture diverse tanto da farlo diventare il primo “cittadino del mondo” in sella ad una bicicletta.


Vero precursore dello “slow del pedale” pedalata dopo pedalata Luigi Masetti segna la strada che oggi molti cercano di seguire, le sue imprese vanno a iscriversi in un periodo storico, nel quale difficilmente potevano esistere aperture mentali come la da sua; per questo la sua figura si staglia come un gigante su un orizzonte che non trova uguali, compiere attraversate come quelle descritte, su mezzi meccanici ancora non perfetti rendono Masetti una persona, unica e difficilmente eguagliabile.


Al paese che ha visto i suoi natali, non esiste una sua traccia. Le sue imprese non sono degnamente ricordate anzi, sono tute cadute in un dimenticatoio con un silenzio assordante.


«Se fosse francese sarebbe portato sugli scudi – se fosse americano si sarebbe fatto una sostanza, ma è italiano, non è quindi da stupirsi, se fuor che da pochi il suo viaggio ardito è calcolato un nonnulla», si leggeva, nel 1893, su “Il Ciclo” non appena il Masetti ritornò dal viaggissimo Milano-Londra-Chicago-Milano.


Se fosse stato tedesco, come l’Heinrich Horstmann che il 2 maggio 1895 montò sulla bici per compiere il giro del mondo (portato a termine il 16 agosto 1897), avrebbe fatto soldi a palate.


La sua tenacia e la sua caparbietà lo rendono un messaggero dell’italianità ai popoli da lui incontrati sulle strade del mondo e dopo tante imprese distanze coperte a colpi di pedale, risulta difficile immaginare che Luigi Masetti possa aver finito la sua vita in un comune letto a Milano nel 1940 anche se circondato dall’affetto dei suoi cari, perché: “gli altri eroi della bicicletta hanno esalato l’ultimo respiro accanto al loro mezzo meccanico, con lo sguardo spalancato sul mondo che percorsero e amarono, superando le abitudini e l’inerzia quotidiana”.



Il primo Globetrotters: LUIGI MASETTI

Tarallucci e vino: l’aperitivo dei litiganti

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tarallucci e vinoIn Italia, quando un dibattito dai toni accesi e controversi si sbroglia in modo amichevole, si usa l’espressione “finire a tarallucci e vino”. Si conclude così una discussione animata, non per un intento di far pace ma per poca e pigra fermezza dei rivali o magari per subdoli e quietanti accordi.


L’atto di inzuppare il taralluccio in un buon calice di vino rosso per molti sarebbe la metafora che risolve un’enfatica disputa tra avversari. Di competizioni, amorose, ideologiche o politiche, ce ne sono a iosa e spesso l’unico modo di risolverle perché provocano un fastidioso disagio interiore e collettivo è proprio quello di ammollarle in un sano raduno conviviale.


A proposito di taralli, al contrario di quel che si dice, sembra poco plausibile che i cavalieri templari se li siano portati appresso nella saccoccia durante la prima crociata; pare, infatti, che i pugliesi li avessero iniziati a proporre per primi almeno tre secoli dopo le loro partenze.


Le masserie fortificate del Salento, in quel periodo, iniziavano a produrre i primi taralli e a farsi il vino,  pensandoli non solo come scorte di sussistenza, ma anche come aperitivo da offrire ai pirati saraceni giunti stremati dalla navigazione che pur non essendo propriamente ospiti apprezzavano eccome.


Non sempre, quindi, torri difensive, sciabolate e olio bollente? Chissà forse i pirati festeggiavano con i pugliesi le loro più semplici passeggiate di conquista sgranocchiando semplici tarallucci e brindando con il vino.


Per i sottomessi, pur di non essere passati alle armi, il miglior ripiego era proprio quello di concedere amicizia e ospitalità. Sorridete pure ma quest’integrazione ci riporta, ancora oggi, attraverso i caratteri somatici di alcuni pugliesi, tipicamente orientali, alla nostra lontana storia.


L’etimo del tarallone per alcuni deriverebbe proprio dal suo processo di tostatura o torrefazione ereditato dagli arabi. Per molti il tarallo ha origine da come si identifica il “pane” in grecia, per altri invece questo nome si ricondurrebbe alla sua forma che è un bel cordolo circolare dorato.


Oltre ai pugliesi, lo sanno bene gli amici napoletani, prima che il romantico mestiere del venditore di taralli si perdesse. Il “tarallaro” era una figura forte di una ricetta tradizionale meridionale basata sul grano locale con l’aggiunta d’olio d’oliva, strutto (nzogna) e un pizzico di  pepe.


Non c’è alcuna rappresentazione natalizia, pugliese o napoletana, senza il pupo di cartapesta infarinato che porta il cesto di taralli sul capo. “Paré ‘a sporta d”o tarallaro” si direbbe nella splendida Napoli, per descrivere chi per motivi di lavoro è costretto ad ambulare tra i suoi vicoli o chi per la sua indolente generosità è costretto, suo malgrado, per necessità o per un qualunque motivo, a distribuire ai suoi clienti appunto la sua preziosa sporta di taralli.



Tarallucci e vino: l’aperitivo dei litiganti

domenica 2 novembre 2014

L’oro bianco. Il sale

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Un po’ di tempo fa fui invitato da un amico ad assistere al concerto di musiche e canti antichi dell’Italia Meridionale, fui colpito da un canto in particolare dal titolo “Canto dei salarini di Trapani”, era un canto di inizio ‘800 siciliano appunto, ed era costituito da richiami – che i lavoratori si passavano l’un l’altro – che servivano a contare il numero delle “cartelle” (sacchi) di sale estratto durante la giornata. Ciò per non per farsi derubare dall’esattore padronale al momento del salario. Questi canti si chiudevano sempre con un’invocazione alla Madonna.


Il mare e i suoi mestieri. Un rapporto profondo che si è instaurato per secoli tra le popolazioni costiere e il Mediterraneo, un legame che ha dato l’opportunità di creare lavori permettendo di avere un minimo economico per poter sostenere la propria famiglia e vivere in modo dignitoso.


Il raccoglitore di alghe ad esempio – in alcune regioni della Francia e Spagna meridionale – era fondamentale, perché riusciva, attraverso varie fasi lavorative, a trasformare le alghe in concime utile in agricoltura; lo stesso accadeva per il raccoglitore di sabbia che grazie al suo lavoro ha reso possibile la creazione del vetro e con esso delle maestose vetrate istoriate ancor oggi ammirare in molte cattedrali gotiche. Sin dal XII secolo la principale forma di sfruttamento della zona costiera in quasi tutti i mari e del Mediterraneo in particolare, è data dalla raccolta del sale. La sua presenza ha sempre comportato una certa ricchezza e l’origine della sua produzione si perde nella notte dei tempi. Troppo prezioso il sale. Oltre che per il suo uso comune, quale condimento di pietanze, la sua maggiore particolarità consiste nella sua proprietà di conservante dei cibi.


Già dall’età del ferro, l’uomo mediterraneo ha adottato delle lavorazioni che con il passar del tempo si sono trasformate in procedure ben precise per la produzione del sale, sfruttando l’esistenza dei vari piani del terreno dove far decantare l’acqua marina proveniente dalle mareggiate.


Le saline presenti nel Mediterraneo sono senza dubbio le prime sia cronologicamente che per l’abbondanza del prodotto e le tecniche adottate nei vari luoghi, differiscono più nella terminologia che nei procedimenti.


Il principio in base al quale erano organizzate le saline si basava sul massimo sfruttamento dell’azione del sole e del vento che permettevano l’eliminazione dell’acqua marina e quindi nella decantazione graduale che migliorava la qualità e la quantità del sale.


Le varie vasche di decantazione erano collegate tra loro da condotti dotati di una lieve pendenza, per gravità l’acqua scorreva verso le successive vasche sino poi arrivare alle più basse chiamate “bacini di concrezione” dove sale cristallizzava.


Il lavoro che bisognava compiere consisteva principalmente nel mantenere in efficienza, attraverso la pulizia accurata, i condotti presenti tra un bacino e l’altro.


Una volta ottenuto il sale, era raccolto con lunghi rastrelli di legno e ammucchiato a piramide su uno spazio pianeggiante per poi essere stipato in costruzioni rigorosamente asciutte. Gli uomini che si occupavano di tale lavorazione erano chiamati salinai, salinari o salarini, e svolgevano sempre lo stesso lavoro durante l’intero anno solare. Salvo alcune eccezioni, la mano d’opera era fornita da operai che godevano dello stato di libertà, solo in qualche rara eccezione si ha notizia di schiavi nel Golfo di Venezia (l’odierno Adriatico).


Lo storico Jaques Le Goff sostiene che molte saline – in genere le più importanti – appartenevano soprattutto alle grandi abbazie, anche molto lontane dalle coste, in quanto beneficiarie di donazioni laiche.


Il consumo del sale avveniva – in un primo momento – a circuito chiuso, ed era destinato agli abitanti e al bestiame del feudo dell’abbazia – in un secondo momento – poi la circolazione del sale in terre oltre o confini dell’abbazia era affidata a gruppi di addetti che poi assunsero il nome di “flotte dell’abbazia”.


In molte cronache del Mediterraneo i “Salinatori” erano spesso descritti come le “persone più povere di tutti i paesi del circondario”, costrette a vivere alla giornata lavorando duramente e data l’enorme mole di lavoro erano costretti spesso a coinvolgere l’intera famiglia nella raccolta del prezioso minerale, coperti di debiti con il proprietario (cui spettavano i due terzi dei proventi) e con i mercanti di sale presso i quali erano costretti a ipotecare anticipatamente la parte loro spettante dei futuri guadagni.


La loro situazione economica quindi, versava in condizioni talmente critiche da riportare testimonianze che lamentavano frasi del tipo: “Siamo costretti a condire le verdure di cui ci cibiamo con il sale delle nostre lacrime”.


Un tardivo e primo riconoscimento dell’utilità sociale di questi lavoratori, fu concesso dalla Chiesa nel XVII secolo che, sia pur molto cautamente, concesse che il lavoro della raccolta del sale si potesse compiere anche la domenica, questo al fine di “non far prosciugare il sistema delle canalizzazioni e delle vasche, onde evitare il rischio di interrompere la produzione del sale”.


L’acqua di mare e il suo sale: due elementi sacri fondamentali, perché in alcune regioni mediterranee costituiscono gli elementi base del battesimo.


I raccoglitori di sale erano quindi, i “contadini del mare”; coltivavano e traevano il frutto che permetteva loro di vivere, oltre al fatto che grazie alla loro continua presenza lavorativa, vigilavano le coste e potevano in caso di necessità, trasformarsi in naviganti.


Pronti a qualsiasi evenienza, umili, spesso miserabili, erano uomini verso cui noi mediterranei europei, siamo ancora in debito.



L’oro bianco. Il sale

La Batata

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batataMolti credono che la patata zuccherina  (Ipomea batatas L.) meglio conosciuta come patata americana (sweet potato) o batata sia una parente della patata comune (Solanum tuberosum ) perché gli assomiglia molto. Per noi non sarà certo un semplice cambio di consonante per indurci alla confusione. Qualcuno rimarrà sgomento a questa informazione botanica!


La Batata appartiene alla famiglia delle convolvulaceae, non ha niente a che fare con quella delle patate comunemente dette che è quella delle solanaceae; anzi vi aggiungo che il suo apparato radicale non è nemmeno un tubero ma una radice tuberosa.


Un altro dilemma è stato quindi finalmente risolto. Adesso potreste recarvi tranquillamente dal vostro fruttivendolo e rivendicargli queste grandi curiosità, all’occorrenza compratela perché questo prodotto possiede un alto valore alimentare.



La Batata