venerdì 27 febbraio 2015

Quel ronzio silenzioso

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bottinatrice (ph M.Ciccarese)Senza fiori e polline le api non saprebbero come fare. Il nettare dei fiori che le bottinatrici raccolgono è fonte di sussistenza per questa specie.


Le api hanno una sorta di tasca che può contenere fino a poco più di una stilla di miele. Al ritorno al loro favo, le anziane api, spostano il prezioso bottino alle giovani operaie per trasferirsi il nuovo nettare, di bocca in bocca, per farlo diventare miele.


Ogni ape, goccia dopo goccia, depone il suo miele, fino a saturare ogni cella disponibile, mentre le altre operaie accanto vorticano le elitre per raffreddarlo e farne evaporare il surplus di acqua perché esso diventi più denso.


Nella produzione del miele, c’è un intima interazione con la fioritura, un lento trasloco che parte da una serie di metamorfosi e risvegli che solo un attenta osservazione può cogliere.


Il sole che attiva la fotosintesi clorofiliana è all’origine di tale fabbrica; un viavai di linfa, un po’di primavera, una felice apertura di corolle colorate e tutto scorre come natura richiede.


Il nettare, si definisce in botanica, come un liquido zuccherino che il fiore crea ed emette per attirare gli animali impollinatori, come lo sono le api.


Ogni tipo d’insetto, dunque, potrebbe essere attratto dal nettare. È un lavoro molto rischioso, per ogni specie, che deve quindi poter servirsi di leste ali per lavorare, per sfuggire ad un predatore o per ripararsi tra le foglie.


Le api hanno delicati mezzi per andare lontano, per passare al calice successivo, per non perdere l’orientamento, per ritrovare le loro partenze e ritornare senza problemi al calore della loro umile dimora.


Proviamo ad immaginare, adesso, il volo di ritorno dell’ape, appesantito dal suo pieno, da campo a campo, da città in città, tra polveri e molecole o mentre si concede una piccola sosta, per assetarsi da un rivolo di rugiada e adagiare il suo fragile addome su un fresco filo d’erba, proviamo ad essere una piccola ape per un attimo.


Pensiamo alla loro vitalità, al loro rapido adattamento, alla loro capacità di sopportazione e prendiamo esempio così come ci ripetevano durante le ore di scienza i migliori insegnanti.


Tutto il popolo delle api, meriterebbe un premio, per la  generosità, la diligenza e l’assiduità al lavoro, per quell’umile ronzio silenzioso che ancora possiamo sentirci attorno e che ci aiuta ad riequilibrare il peso di un microcosmo ormai in sgradevole crisi.



Quel ronzio silenzioso

lunedì 23 febbraio 2015

Evento: “Sapori e saperi del mangiar sano”

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pieghevoleOgnuno ha in serbo una personale formula che gli restituisce un valore, non virtuale, di benessere e salubrità. Siamo alla continua ricerca di un felice legame, di un rapido riepilogo, così come si potrebbe enunciare, tra i lumi della scienza e della coscienza, tra le memorie della cultura o della natura che ci sorprende.


L’analisi riguarda il rapporto tra “Sapori e saperi del mangiar sano” e rappresenta anche un’osservazione dettagliata, che istruisce e appaga non solo gli addetti al settore ma anche la curiosità dei consumatori.


Questa ricerca è il titolo dell’evento che ci vede impegnati a svolgere migliaia di slide che ci competono così come si presenta in questi giorni di cui si allega la locandina.


È un ciclo d’incontri sull’alimentazione e, perché no, anche dell’ambiente, dell’uso sostenibile di un territorio e dell’etica del produrre in modo naturale. In particolare per questo si evidenzia la relazione del 7 marzo 2015 sulle coltivazioni biologiche.


Una serie di meeting, quindi, intesi come corollario utile per il nostro habitat, che sembrano quasi come nutrienti portate di cibo, che iniziano dal pane fino al dolce, o semplicemente come ricche pagine di un’esposizione cui i loro ideatori invitano cordialmente a leggere e partecipare.


Questo il ciclo completo degli incontri:


pieghevole 1


ciclo incontri Saperi e Sapori del mangiar sano



Evento: “Sapori e saperi del mangiar sano”

venerdì 20 febbraio 2015

Quel Cavolo di Ortaggio

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cavoliverzaIl cavolo verza (Brassica oleracea L. var. sabauda L)  è parente di molti altri cavoli conosciuti, da quello Nero a quello di Bruxelles. Tale ortiva si adatta ai climi temperati e anche se diventa più appetitoso quando s’intenerisce con il freddo; non sopporta, in ogni caso, qualsiasi tipo di gelate.


Si può trapiantare fino alla prima decade di settembre, a seconda dei climi e del terreno. Il terreno che preferisce la coltura è quello profondo, ben strutturato, non asfittico, possibilmente dotato di impianto irriguo a reazione Ph lievemente alcalina o prossima alla neutra.


Il cavolo verza inizia la formazione della sua testa quando il suo collo raggiunge un altezza di qualche decimetro; è questo il momento adatto per liberarlo dalla flora spontanea che gli cresce accanto e che gli sottrae elementi nutritivi, con opportune rincalzature.  Se è il caso, si effettuano anche irrigazioni, senza esagerare con la frequenza, magari localizzandola con impianti a goccia su un sesto d’impianto di circa due piante a metro quadrato. La raccolta va da settembre ai primi freddi quando coltivati in pieno campo e la sua testa raggiunge le dimensioni ottimali. Dopo almeno due o tre mesi dal trapianto e si possono raccogliere fino a 5-10 kg per metro quadrato, ma questo dipende da molti fattori.


Nel caso in cui il vostro amato cavolo verza subisce un non identificato attacco di parassiti, rivolgetevi ai tecnici esperti del settore, in ogni caso è bene  adottare i metodi di agricoltura biologica e naturale, utilizzando sempre la razionalità del buon orticoltore di famiglia.



Quel Cavolo di Ortaggio

sabato 14 febbraio 2015

La Pignata

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la pignataProverbio Salentino: Li uai te la pignata li sape la cucchiara ca li ota (I guai della pignatta li conosce il suo mestolo che li gira).


La pignata è una pentola di terracotta smaltata, forse precorritrice della pentola a pressione, un tempo adoperata per conservare il grasso, la sugna o lo strutto. Un tegame che ricorda la forma tronfia e panciuta della pigna, con due solide fettucce per asole, ideale per lessare un misto di legumi durante i giorni feriali escluso la domenica che è dedicata alla pasta “fatta in casa”.


La pignata è anche un piatto tipico della civiltà rurale salentina che occupa un posto nella categoria dei cibi economici e lenti, singolare anche nel metodo di preparazione che potrebbe essere anche un ottimo esercizio di meditazione.


Il rito dello “spignattamento” inizia un giorno prima, con un opportuno ammollo acquatico di piselli, fave e ceci di stagione; consiste in una cottura moderata e distante dal fuoco diretto, su braci di legno d’olivo, almeno per quattro o cinque ore, fino a quando il duro legume si trasforma in una massa morbida e cremosa aromatizzata con porro, cipolla o pomodoro, con aglio e sedano, con rosmarino, salvia, finocchietto selvatico.


La pignata può essere annoverato come un magnifico esempio alimentare salentino e il gorgoglio del ribollir di fagioli, accompagnato da cicorie selvatiche, da un filetto d’olio, da cubetti di pane fritti (muersi), peperoncino e cipolline in agrodolce va a costituire uno dei piatti più remoti che il Salento conosca.


La nostra pentola dopo innumerevoli cotture, come tutte le cose ricavate dalla terra, manifesta i primi sintomi di decadimento, inizia a crepare fino al momento che non può essere più utilizzata tra gli utensili di casa e può essere perfino riciclata per altri usi. In alcuni popoli, come Spagna, Messico e Italia, nella prima domenica della Quaresima, la cara pentolaccia diviene un gioco simbolico che richiama il rito del fuoco che brucia il vecchio anno la cui fine coincide con l’equinozio primaverile.


Nel Meridione d’Italia il gioco comincia nel tentar di colpire, con un apposito cucchiarone la vecchia pignata. L’attore del gioco è il “pignataro” con in mano un’incarbonita pentola che vortica pericolosamente burlando la percezione uditiva con piccoli e fugaci rintocchi sul pavimento il “bastonatore” che cerca di colpire con gli occhi bendati e con l’intuito tra gli spettatori tifosi. Lo spasso finisce nel momento in cui lo stremato di turno colpisce e apre la pentolaccia, facendone cadere gli attesi premi che contiene, dolci e caramelle, un tempo immagini della buona semina e del buon auspicio.


 


 


 



La Pignata

sabato 7 febbraio 2015

Le cultivar d'olivo salentine! Identità dubbie?

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ulivi di LeucaC’è una biodiversità che anima il Salento, un catalogo di razze e varietà in attesa di essere riprese e rivalutate. Le diversità varietali si rannicchiano ormai tra i piccoli spazi che le comunità rurali hanno deciso di riservare. Quando si descrivono i caratteri naturali di un essere vivente, si ridestano prodigiosamente la memoria e il luogo d’origine della loro evoluzione, insieme all’affezione e la volontà di riprodurli.


I caratteri della pianta interagiscono, seppur in modo indiretto, con quello dell’uomo che li ha generati migliorandoli con l’antico rito dell’innesto, un atto che tra le comunità rurali appare oggi come un esercizio, quasi zen, purtroppo in via di estinzione.


Eppure, grazie all’opera degli antichi innestatori, che milioni di ulivi caratterizzano le tonalità del Salento; grazie ad essi abbiamo la facoltà di ammirarli, rispettarli e riviverli.


Per gli innestatori c’e un periodo esatto per assegnare una nuova gemma sul fusto selvatico, per sfruttare il movimento linfatico che erompe dai suoi vasi, poco prima che la pianta si risvegli dal suo torpore. Sono i momenti in cui si decidono le varietà più gentili di frutto più gustose e durevoli al clima e al suo cambiamento, ai batteri, agli insetti e alle virosi.


La pianta d’ulivo cerca di resistere anche alla sua stessa dimora, cercando di dissetarsi, insinuando e rivoltando le radici tra le fessure della sua roccia.


Per un ulivo secolare questa ricerca è uno sforzo anche per esprimersi e raccontarsi, ripiegandosi infinite volte su se stesso. Quando si accede nella dimensione di simili movimenti, tale percezione si accresce sempre di più e si rivive per ogni nostro delicato passo la loro incredibile genesi.


Con il percorso proposto, si percepiscono le differenze tra le colonie selvatiche, a sesti d’impianto irregolari, le più antiche e affascinanti, innestate accanto ai ruderi dei monasteri o ai siti importanti di scambio commerciale e quelle pur secolari e moderne a sesti regolari, in fila come milizie per un altro tipo di olivicoltura.


Nella storia olivicola della penisola salentina le due varietà più innestate, sono la Cellina di Nardò e la Ogliarola Leccese, due cultivar a confronto che meriterebbero molto più riguardo rispetto a quello odierno almeno per la loro storia, oltre che per la loro bellezza.


Probabilmente quelle che molti tradizionalmente annoverano sotto il nome di Cellina di Nardò, ad esempio, cultivar autoctone, che pur essendo molto simili, siano fondamentalmente diverse da quelle presenti nella zona di Gallipoli o di Otranto. Siamo proprio sicuri che tutti gli ulivi salentini siano retaggio di due sole varietà prevalenti? Potrebbe essere questo un insolito abbaglio che gli esperti si portano appresso da secoli?  


 



Le cultivar d'olivo salentine! Identità dubbie?