venerdì 25 luglio 2014

La patata Salentina dal nome Tedesco

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patata di GalatinaDal 2004 dopo l’inserimento nell’elenco dei prodotti tradizionali di Puglia e con il recente riconoscimento DOP, Denominazione di Origine Protetta da parte del Ministero delle Politiche agricole si può tranquillamente dire che questa coltura ortiva è diventata davvero una grande patata.


Con Decreto Ministeriale del 29 gennaio 2014, il capo dipartimento delle Politiche agricole ha permesso la protezione transitoria di denominazione d’origine protetta alla patata novella di Galatina sul territorio nazionale. Adesso dovrebbe essere riconosciuta anche dalla comunità europea.


La patata novella di Galatina nasce in Germania dall’incrocio delle varietà Bohm 155/06 e Juli ma nella penisola salentina ha trovato le condizioni pedoclimatiche ottimali facendosi subito adottare da migliaia di produttori locali dove sarebbe l’emblema dell’agricoltura a km 0.


La forma lunga e ovale, buccia liscia e dorata e ricca di gemme affioranti a polpa gialla la patata Sieglinde si raccoglie a metà luglio lungo il tratto di costa jonica salentina.


Dal punto di vista merceologico le patate sono classificate in tre categorie: A-B-C. secondo la consistenza della polpa. Le differenze tra le classi di patata si riscontrano in cucina quando sono affettate e lessate o fritte.


La patata novella di Galatina appartiene alla classe, alla migliore, quella che non sfarina alla coltura e mantiene costante le sue buone qualità.


Se vi recate nel Salento provate a gustarle in tutti i modi possibili perché ne vale davvero la pena.


 



La patata Salentina dal nome Tedesco

sabato 19 luglio 2014

Qui c’era un albero

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tronco tagliatoUn tempo qui c’era un albero. Per aver vivo il suo ricordo ho provato a percorrere a ritroso i cerchi della sua esistenza prima che fosse tagliato. Lo ripulisco delicatamente dai brandelli del suo legno e partendo dalla corteccia traccio ben settantuno anelli prima di fermarmi sull’anno zero, sul midollo che coincide con il 1945, anno della fine della seconda guerra mondiale che ricorda il triste agosto di Hiroshima.


L’anno del suo principio è quindi anche l’anno della ricostruzione e del riscatto dal più terribile periodo della nostra storia, molti non erano nati, qualcuno, purtroppo, non potrebbe mai comprenderlo.


Si può immaginare, invece, il giorno festoso della sua messa a dimora, i colpi sparati a salve, le moltitudini intorno ad acclamare l’evento, il discorso delle autorità. Da lì a poco, avrebbe guarnito le prime vie sterrate di scambio, avrebbe scortato i viali delle piccole stazioni ferroviarie da cui sarebbero partiti i nostri emigranti, in cerca di fortuna, o semplicemente lo avremmo visto crescere in modo isolato a tenerci compagnia.


Il trapianto di un albero ha sempre il fascino della presenza e dell’amore; potrebbe commemorare una data, un partigiano o un milite ignoto caduto per difendere la sua famiglia e la sua patria.


Mentre procedo con la conta sul tronco esamine, i fasci e le fibre del suo xilema piangono ancora la linfa grezza che le radici, continuano ad assurgere dal sottosuolo; le radici non sanno ancora che l’albero è ormai smembrato, la sua folta e sana chioma non respira più, non sanno ancora che avranno simile tragica sorte.


Cerco di inquadrare l’obiettivo sulla sanità del suo midollo e mi chiedo perché fosse stato atterrato. Il taglio è netto, evidenzia la decisione e la rapidità dell’azione, il freddo e potente motore che anticipa l’abbattimento del gigante mi disturba, sono davvero pochi attimi senza respiro e lo sento cadere sull’asfalto vicino ai piedi dei suoi esecutori, poi il silenzio della gente attorno.


Il legno libera la sua essenza, l’odore della resina diventa sempre più intenso, pervade l’intero sobborgo, lo associo all’incenso delle cerimonie religiose e rabbrividisco pensando ai milioni di baci che tanta gente ha inciso all’altezza del suo cuore, al solletico della sua ombra sulla loro pelle al deserto triste che quel monumento, ormai abbattuto, trasferirà su tante coscienze.



Qui c’era un albero

martedì 15 luglio 2014

Dall’olio al sapone. Le saponiere di Gallipoli.

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Presso gli antichi romani la dea “Igea” era venerata come la protettrice della salute e dal suo nome deriva il termine Igiene; nell’antichità, il prendersi cura del proprio corpo equivaleva a un’azione purificatrice, a Roma erano molti, infatti, i bagni pubblici smistati per la città – i vespasiani – oltre che agli impianti delle terme dove si poteva usufruire di vari servizi come l i bagni caldi e massaggi con olii e detergenti profumati.


Ne deriva che gli oggetti che oggi usiamo nel quotidiano come il sapone, hanno per noi un valore talmente scontato che ci porta a ignorare la sua importanza; è anche grazie al suo impiego che si sono potute sconfiggere molte epidemie che in passato hanno decimato intere popolazioni.


La scomparsa di queste era causata, nella maggior parte delle volte, alla concomitanza di più fattori come la mancanza delle norme basilari d’igiene, l’acqua corrente e la cura della propria persona con l’uso di detergenti appunto.


Sono molte le fonti che testimoniano le origini del sapone; le prime tracce si trovano presso la civiltà assiro-babilonese, qui il sapone era prodotto sia solido che liquido, ed era conservato in recipienti cilindrici in argilla sui quali – in alcuni casi – sono state trovate delle incisioni che riportavano i procedimenti per la sua preparazione.


Il suo utilizzo continua nei secoli dagli egizi ai greci, i romani lo usavano in miscuglio con una creta finissima per poi strofinarsi con una pietra pomice.


Ma per il vedere il sapone nella forma che oggi conosciamo, dobbiamo aspettare la civiltà araba, la prima a introdurre l’ingrediente della soda caustica (Al-Soda Al-Kawia).


Grazie all’espansione araba dell’800, (v. Samudaya: Le Cupole Maiolicate) i primi saponi entrarono in Europa prima prima in Sicilia poi in Spagna, erano saponi colorati, profumati e il più famoso tra questi rimane quello della città di Aleppo in Siria.


Una volta conosciuto nel bacino del Mediterraneo e capita la sua utilità, la produzione del sapone non conosce limiti di tempo e di quantità e s’incrementa soprattutto in quelle economie che vedono grandi quantitativi di produzione d’olio e il Salento ne è sempre stato una terra dalla grande produzione (v. Samudaya: un Muro che racconta).


Nelle “Memorie istoriche della città di Gallipoli” del cronista gallipolino degli inizi del 1836 Bartolomeo Ravenna, descrive le attività che rendono fiorente il commercio della città jonica di Gallipoli, uno di questi è proprio la produzione dei saponi che così riporta:“Le fabbriche di saponi bianchi duri formano un altro ramo d’industria, sufficiente al sostentamento degl’individui che travagliano, e dei proprietarj che le tengono stabilite; contandosi in oggi circa venti saponiere”. Consumano queste una parte delle molte legna, che tagliansi annualmente rimondando i nostri uliveti. Oltre dè fabbricanti, impiegan pure l’opera loro molti altri, quelli che girano pel territorio e nei paesi adjacenti, acquistando cenere, e quelli dei littorali e nella stagione estiva raccolgono e bruciano l’alga, per avere la cenere; quelli che annualmente s’impegnano a formare delle calcare, essendo necessaria della molta calcina per la lisciva e sia ranno; e finalmente quelli, che acquistando del sapone in Gallipoli, lo portano a vendere in dettaglio né vari paesj della Provincia.


Come si evince il commercio dell’olio nella città di Gallipoli era di fondamentale importanza, tanto da farla diventare una delle più rilevanti del Regno di Napoli, in seguito al radicarsi di tale attività economica, Gallipoli vede il potenziamento del suo porto grazie ad un decreto Regio del 24 luglio del 1830.


È, infatti, dal suo porto che veniva caricato più della metà dell’olio esportato all’estero – metropoli come Londra e Parigi ed altre capitali europee usarono l’olio del Salento per illuminare le strade fino alla fine del XIX secolo quando, con l’arrivo dell’elettricità, mandò in crisi l’esportazione del cosiddetto olio lampante. L’enorme quantitativo d’olio presente nella cittadina jonica, era stoccato in grandi depositi ipogei disseminati per il centro storico, questi erano chiamate “posture”, nelle quali era una volta depositato, dove era lasciato decantare, sino a diventare biondo e privo d’impurità.


L’olio venduto dai commercianti agli esportatori era misurato in un’unità chiamata “Salma di caricamento” misura pari alle “regge pile” in cui si caricava.


Una volta svuotate le “pile” dall’olio, il materiale che si depositava sul fondo era prelevato e cotto in caldaie per ottenere il “raffinato” da utilizzare nelle Saponerie.


Tipologicamente la Saponiera, era formata in genere da un unico ambiente di medie dimensioni, dove erano presenti una fornace con camera di combustione sottostante e canna fumaria, la lavorazione prevedeva l’ebollizione del raffinato e l’aggiunta della soda la accelerava il processo di saponificazione dei grassi, per poi ottenerne il panetto.


Vista l’elevata redditività, sorsero molte saponiere in città, tanto che ancora oggi esiste via Saponiere, proprio accanto alla chiesa di S. Francesco.


Un chimico del XIX sec. affermò che “la quantità di sapone utilizzata da una nazione indica il suo grado di prosperità e civiltà”. Difficile non essere d’accordo!


 



Dall’olio al sapone. Le saponiere di Gallipoli.

lunedì 14 luglio 2014

La banca dei semi

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ph M.Ciccarese ph M.Ciccarese


Che cosa spinge i movimenti a salvaguardare la biodiversità della cultura contadina? Certamente l’energia germinativa delle creature vegetali crea un desiderio di tutela e di curiosità simile a quella che ebbero i padri della ricerca genetica nel corso dei secoli.


C’è uno scambio formativo intorno a tale prerogativa, dai tempi in cui nacquero, quasi parallelamente con l’avvento della chimica in agricoltura, i primi gruppi di “seed savers” e le prime reti di banche genetiche mondiali per replicare alla richiesta naturale di serbare le varietà più antiche di piante, quelle a rischio d’estinzione. I semi si perdono in favore di un processo di “erosione genetica”, una deriva dovuta alle esigenze di mercato e per ridurre il valore dei costi di produzione.


Legumi, ortaggi e cereali, si ritrovano grazie alla minuziosa ricerca di centinaia di migliaia di volontari. Un cuore rurale si riscopre tra le opportunità di semina, un catalogo di antiche piante, un ventaglio di espressioni locali in attesa di germinare.


È un gesto nobile, quello di conservare i semi, come si faceva un tempo, racchiuderli con cura in piccoli sacchetti di iuta, tra le ripostigli delle cantine, come gioielli di un antico orto, saperi e sapori di una volta. Si risemina la terra, attraverso corsi ad hoc, che spieghino la tecnica di ritrovare la tradizione contadina e conoscere le attuali normative che disciplinano la difficile esistenza delle sementi.


La banca dei semi è un luogo di stoccaggio, un gradevole test tecnico di germinazione, un incontro tra domanda e offerta di varietà indigene, un’opportunità di lavoro nel settore dell’agricoltura naturale, un attimo d’informazione preziosa, in grado di creare testimonianze, strumenti di dibattito etico e traffico d’esperienza tra produttori locali.



La banca dei semi

venerdì 11 luglio 2014

Il grande tempio degli ulivi

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059Il mito della genesi dell’ulivo inizia dalla disputa per la conquista della splendida città di Atene che Zeus avrebbe dato in premio a chi avrebbe offerto il dono più utile da scegliere tra un veloce cavallo suggerito da Poseidone, dio del mare e un albero d’ulivo proposto dalla dea Atena.


Le divinità sancirono la vittoria alla dea guerriera e l’astioso tridente del mare, incaricò il figlio di scendere in terra per abbattere in segreto il primo ulivo interrato in onore di Atena. L’infelice gesto non passò inosservato a Zeus, che castigò Poseidone del suo vile atto ritorcendo il massimo della sua ira sull’esistenza del figlio.


Dalla nascita di quell’ulivo per volontà degli dei, gli ateniesi condannavano con la pena di morte e con la dannazione chi avrebbe sradicato un solo albero dedicato ad Atena.


Atena ricorre nel passato dei popoli mediterranei, la sua importanza li coinvolge perché la ritrovano in ogni luogo più inaspettato, come se fosse sempre presente, a vegliare sui suoi discendenti e riferire a Zeus ogni loro azione. Nella mia terra, per ogni tempio perduto, a lei dedicato, se ne parla con un senso di rispetto e con una lieve dose di timore, nonostante che il suo mito fosse così distante dai nostri credi.


Nel sud dell’Italia, si ricercano ancora le rovine dei suoi innumerevoli templi sotto incerte e misteriose fondamenta senza mai riflettere che forse la volontà di Atena si sarebbe esaudita nella Magna Grecia e potesse trovarsi proprio di fronte al nostro sguardo, con l’immensa distesa di ulivi secolari che la caratterizza.


Il grande tempio di ulivi sacri, quindi, potrebbe essere il vero epicentro che inizia la nostra storia, simile a quell’orto del Getzemani, luogo d’intima preghiera e sacra dimora di un popolo orgoglioso.


L’azione di sradicare o distruggere un albero di ulivo va contro le leggi naturali; non ci sono ragioni valide che possano giustificare il distacco delle sue radici dalla terra, erano un terribile sacrilegio per gli ateniesi e sarebbero oggi gesti di pura incoscienza a scapito dell’umanità.



Il grande tempio degli ulivi

martedì 8 luglio 2014

Cosa non si darebbe per un piatto di lenticchie

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lenticchieIn Italia un etto di lenticchie comuni costa in media 45 centesimi, cioè 4,50 euro al chilo. Il suo prezzo potrebbe salire fino a dodici euro/kg se si va a comprare una lenticchia di nicchia ad Indicazione Geografica Tipica (IGP), ecotipi autoctoni provenienti da Ustica, da Castelluccio di Norcia o da Altamura. In questi casi coltivare o mangiare lenticchie è davvero un buon affare. Basterebbero quindi circa un etto di lenticchie quindi, per rimpiazzare il corrispettivo di carne, potrebbero fornire quasi 300 calorie.


Mangiare lenticchie a capodanno porta fortuna agli italiani che in tempi di crisi iniziano a comparare i costi unitari degli alimenti per poter risparmiare. Non staremo adesso a contare i semi di lenticchia per ogni etto acquistato anche se l’esercizio non guasterebbe per allenarsi alla misura.


I dati parlano chiaro, purtroppo e nonostante tutto, ci si orienta verso i cibi più complessi e ci si allontana dalla semplicità della dieta mediterranea. L’esempio di tale alimento trasfigurerebbe il consumatore in un economista risoluto, in grado di valutare il valore nutrizionale, equilibrare il fabbisogno quotidiano di calorie o distinguere un sale minerale dalla proteina. Con tali apprezzamenti, perfino le lenticchie ci sorriderebbero e con loro ne gioverebbe non solo il consumatore accorto ma anche l’esperto produttore.


Mangiare lenticchie è anche ecologico, perché è un legume che non ha bisogno di terapie chimiche per produrre, con poche semine si possono raggiungere quantità strabilianti. Ecco perché è da sempre considerata anche come “carne delle classi povere”, lo avevano ben compreso nel medio oriente fin dai tempi più antichi.


Nell’epopea biblica sarebbe stato addirittura il piatto che Esaù affamato, di ritorno dalla caccia avrebbe barattato in cambio della sua primogenitura; una metafora poco dignitosa che nell’attualità ricorda certe scelte politiche o lavorative che non hanno nulla a che fare con i pregiati gusti della cucina e della tradizione mediterranea.


 


 



Cosa non si darebbe per un piatto di lenticchie

lunedì 7 luglio 2014

La Scapece e il rito dimenticato

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058Sotto i lumi della grande festa patronale di un piccolo centro salentino l’anziano commerciante espone la sua scapece.  Se siete turisti, e volete conoscere meglio il Salento, prima di decidere su quest’alimento tipico della città di Gallipoli è interessante chiedere notizie al suo espositore.


Tra le tinozze rigorosamente in legno (calette), oltre che a farvi annusare l’intensità del suo prodotto, come l’antica e discreta stadera di legno e ottone posata sul suo bancone, l’increspato mercante potrebbe raccontarvi qualcosa di più interessante rispetto alla nostra fugace descrizione.


La scapece è un pesce di piccole dimensioni, solitamente boghe (ope) o zerri (pupiddrhi), fritti e marinati nell’aceto e nello zafferano con la mollica di pane raffermo.


Un alimento a lunga conservazione, ideato per rimediare alla fame durante i giorni delle invasioni corsare e diffuso in ogni angolo del bacino del Mediterraneo. In particolare, la curiosa ricerca rileva la derivazione catalana del suo nome, escabeche, a sua volta proveniente dall’arabo sikbag, piatto tipico persiano fatto con il sugo di aceto a marinare la carne e non il pesce.


Si scopre anche che l’escabeche è un piatto tipico di molti paesi sudamericani, dal Cile a Cuba, dall’Uruguay all’Argentina presentato sotto svariate forme, accompagnato da pesto d’aglio, menta, cipolla, peperoncini piccanti, carote o funghi.


La presenza nella scapece dello zafferano, prodotto atipico del Salento, ci lascia qualche dubbio circa la sua reale origine; probabilmente doveva essere un ingrediente importato nel medioevo dagli ingegnosi gallipolini durante la loro fiorente attività commerciale o che magari la pianta crescesse spontaneo sulle colline dell’Alto Salento con qualche nome ormai dimenticato.060


Un tempo, a grande richiesta, associato a questo consumo, era diffusa la regola dello scacchiddrhu, che appagava i più tradizionali; era un rito che consisteva nell’introduzione rapida e decisa del pesce marinato e gocciolante nella bocca aperta del suo fedele cliente barbuto, per via diretta, dalle mani del venditore che in questo modo ringraziava per l’acquisto.



La Scapece e il rito dimenticato

domenica 6 luglio 2014

Con la DOC Salice Salentino, il Negroamaro è un vino prezioso

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029La Denominazione di Origine Controllata Salice Salentino comprende alcuni territori del Nord Salento a Sud della Puglia, regione predisposta alla coltivazione della varietà Negroamaro dove l’Italia vitivinicola accende un disciplinare molto importante per la comunità rurale del suo Meridione.


È un vino di un’ origine autoctona dai caratteri rossi e rosati cui concorre anche la Malvasia nera di Lecce, quella di Brindisi e il profumato Aleatico. La DOC Salice Salentino con tali varietà è comunque, fondamentalmente, una brillante espressione che riguarda, in primis, l’intensità e i riverberi del suo rosso rubino oltre che un gradevole ritrovo di odori e sapori.


Il Negroamaro è indubbiamente un vino singolare, vellutato, sensuale, robusto con il rossore del fuoco che restituisce con la dovuta autorità, l’orgoglio produttivo e la secolare indole, l’eredità dei suoi antichi coltivatori messapici.


Nelle eleganti cantine di questa terra, si attraversa un passionale ciclo di produzione, classico o moderno che assorbe dalla sua avvincente vendemmia uve sane e pregiate e ingentilisce le smisurate qualità organolettiche nelle più pregiate barrique.


Tale varietà, già dal 1970, celebra soprattutto l’audacia dei suoi innovatori, una vera scuola del rinnovamento del vino, una disciplina apprezzata per aver trasformato con grande generosità un prodotto destinato al “taglio” per i mercati dell’Italia settentrionale in un nobile anfitrione d’inimitabili virtù.


Le case vitivinicole della DOC Salice Salentino sono quindi sempre presenti per farsi apprezzare attraverso vivaci percorsi di enoturismo ed richiami cordiali  che invitano la navigazione tra gli affluenti vitivinicoli di questa sorprendente penisola del Mediterraneo.



Con la DOC Salice Salentino, il Negroamaro è un vino prezioso

La Trottola

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foto M. Ciccarese foto M. Ciccarese


L’antico gioco consiste nel far trottolare il cono ferrato intorno ad un campo di cerchi concentrici; vince chi riesce a far roteare ed avvicinare al centro del cerchio per più secondi.


Un moto rotatorio che è simile a quello dei pianeti intorno al loro sistema e che ricorda la precessione degli equinozi; un moto così accelerato che a guardarlo da lontano ti sembra che il suo polo fosse in uno stato di quiete.


La cordicella si arrotola lungo lo strobilo della trottola e poi si rilancia abilmente per fargli riprendere quel turbinoso moto verso il nucleo terrestre. Si prova più volte da soli prima di imparare quel rapido movimento di polso e mani che ti permettono di non scagliarlo dritto in fronte all’avversario.


In Italia, la trottola prende diversi nomi: Girifalco in Calabria, Morrocula in Sardegna, Strummola a Palermo, Currulu nel Salento. Sembra che sia un gioco inventato in Mesopotamia e poi diffusosi tra greci, romani ed etruschi, tra i nativi americani, nell’Inghilterra medievale e nel Giappone.


Più che un giocattolo, la trottola ha marciato addirittura tra riti religiosi e pagani come quelli propiziatori per la semina e il raccolto, tra le donne dell’antica Grecia si ricorreva al magico strombilos per attirare e scegliere gli uomini.


 



La Trottola