Presso gli antichi romani la dea “Igea” era venerata come la protettrice della salute e dal suo nome deriva il termine Igiene; nell’antichità, il prendersi cura del proprio corpo equivaleva a un’azione purificatrice, a Roma erano molti, infatti, i bagni pubblici smistati per la città – i vespasiani – oltre che agli impianti delle terme dove si poteva usufruire di vari servizi come l i bagni caldi e massaggi con olii e detergenti profumati.
Ne deriva che gli oggetti che oggi usiamo nel quotidiano come il sapone, hanno per noi un valore talmente scontato che ci porta a ignorare la sua importanza; è anche grazie al suo impiego che si sono potute sconfiggere molte epidemie che in passato hanno decimato intere popolazioni.
La scomparsa di queste era causata, nella maggior parte delle volte, alla concomitanza di più fattori come la mancanza delle norme basilari d’igiene, l’acqua corrente e la cura della propria persona con l’uso di detergenti appunto.
Sono molte le fonti che testimoniano le origini del sapone; le prime tracce si trovano presso la civiltà assiro-babilonese, qui il sapone era prodotto sia solido che liquido, ed era conservato in recipienti cilindrici in argilla sui quali – in alcuni casi – sono state trovate delle incisioni che riportavano i procedimenti per la sua preparazione.
Il suo utilizzo continua nei secoli dagli egizi ai greci, i romani lo usavano in miscuglio con una creta finissima per poi strofinarsi con una pietra pomice.
Ma per il vedere il sapone nella forma che oggi conosciamo, dobbiamo aspettare la civiltà araba, la prima a introdurre l’ingrediente della soda caustica (Al-Soda Al-Kawia).
Grazie all’espansione araba dell’800, (v. Samudaya: Le Cupole Maiolicate) i primi saponi entrarono in Europa prima prima in Sicilia poi in Spagna, erano saponi colorati, profumati e il più famoso tra questi rimane quello della città di Aleppo in Siria.
Una volta conosciuto nel bacino del Mediterraneo e capita la sua utilità, la produzione del sapone non conosce limiti di tempo e di quantità e s’incrementa soprattutto in quelle economie che vedono grandi quantitativi di produzione d’olio e il Salento ne è sempre stato una terra dalla grande produzione (v. Samudaya: un Muro che racconta).
Nelle “Memorie istoriche della città di Gallipoli” del cronista gallipolino degli inizi del 1836 Bartolomeo Ravenna, descrive le attività che rendono fiorente il commercio della città jonica di Gallipoli, uno di questi è proprio la produzione dei saponi che così riporta:“Le fabbriche di saponi bianchi duri formano un altro ramo d’industria, sufficiente al sostentamento degl’individui che travagliano, e dei proprietarj che le tengono stabilite; contandosi in oggi circa venti saponiere”. Consumano queste una parte delle molte legna, che tagliansi annualmente rimondando i nostri uliveti. Oltre dè fabbricanti, impiegan pure l’opera loro molti altri, quelli che girano pel territorio e nei paesi adjacenti, acquistando cenere, e quelli dei littorali e nella stagione estiva raccolgono e bruciano l’alga, per avere la cenere; quelli che annualmente s’impegnano a formare delle calcare, essendo necessaria della molta calcina per la lisciva e sia ranno; e finalmente quelli, che acquistando del sapone in Gallipoli, lo portano a vendere in dettaglio né vari paesj della Provincia.
Come si evince il commercio dell’olio nella città di Gallipoli era di fondamentale importanza, tanto da farla diventare una delle più rilevanti del Regno di Napoli, in seguito al radicarsi di tale attività economica, Gallipoli vede il potenziamento del suo porto grazie ad un decreto Regio del 24 luglio del 1830.
È, infatti, dal suo porto che veniva caricato più della metà dell’olio esportato all’estero – metropoli come Londra e Parigi ed altre capitali europee usarono l’olio del Salento per illuminare le strade fino alla fine del XIX secolo quando, con l’arrivo dell’elettricità, mandò in crisi l’esportazione del cosiddetto olio lampante. L’enorme quantitativo d’olio presente nella cittadina jonica, era stoccato in grandi depositi ipogei disseminati per il centro storico, questi erano chiamate “posture”, nelle quali era una volta depositato, dove era lasciato decantare, sino a diventare biondo e privo d’impurità.
L’olio venduto dai commercianti agli esportatori era misurato in un’unità chiamata “Salma di caricamento” misura pari alle “regge pile” in cui si caricava.
Una volta svuotate le “pile” dall’olio, il materiale che si depositava sul fondo era prelevato e cotto in caldaie per ottenere il “raffinato” da utilizzare nelle Saponerie.
Tipologicamente la Saponiera, era formata in genere da un unico ambiente di medie dimensioni, dove erano presenti una fornace con camera di combustione sottostante e canna fumaria, la lavorazione prevedeva l’ebollizione del raffinato e l’aggiunta della soda la accelerava il processo di saponificazione dei grassi, per poi ottenerne il panetto.
Vista l’elevata redditività, sorsero molte saponiere in città, tanto che ancora oggi esiste via Saponiere, proprio accanto alla chiesa di S. Francesco.
Un chimico del XIX sec. affermò che “la quantità di sapone utilizzata da una nazione indica il suo grado di prosperità e civiltà”. Difficile non essere d’accordo!
Dall’olio al sapone. Le saponiere di Gallipoli.