sabato 31 gennaio 2015

Il Carciofo

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carciofoIl nome salentino del carciofo, Cynara cardunculus L. scolymus, è “ scarcioppula” o “scarcioffula”come il napoletano; in siciliano si chiama cacocciulu, mentre in barese scarcioff e in Abruzzo scarcioffl. È proprio dall’arabo al-kharshuf, cioè “pianta che punge” e dallo spagnolo “alcachofa” che i meridionali d’Italia lo fanno derivare.


Una pianta, i cui caratteri botanici si adattano proprio al Sud dell’Italia, regione che riesce a produrre la maggior quantità in Europa, per le sue condizioni pedo climatiche favorevoli alla cultura.


Il carciofo, si coltiva infatti, con temperature miti e umide e riesce a resistere a temperature vicine a 0°, su terreni fertili e ben strutturati.  Conosciamo tre varietà botaniche nell’area mediterranea il cardo selvatico o carduccio, spontaneo, i cui fiori erano utilizzati per cagliare il formaggio, poi si conosce quello coltivato e quello domestico.


Questi ultimi derivano proprio dal primo, quello silvestre da cui prendono diverse morfologie a seconda delle varietà. Una specie perenne, molto coltivata nella Puglia Brindisina, dell’alto Salento e in Sicilia, che forma rizomi e getti di gemme chiamati carducci.


Sono molto belli i capolini azzurri dei carciofi, un’infiorescenza chiamata calatide con ricettacolo carnoso setole traslucide a formare nell’insieme la caratteristica peluria. Le bratte coriacee e squamose, imbricate a mo d’involucro, una sull’altra, s’inteneriscono quanto più la loro disposizione è interna a costituire il cuore edule della pianta, vera bontà utilizzato in migliaia di modi dalla cucina della dieta mediterranea.


Nella mitologia il carciofo nasce per volere di un Giove alterato che, per punire la ninfa Cynara, dal folto capello grigio cenere vicino al verde e dagli occhi di mammola, la trasfigura in un bocciolo irto di spine. Probabilmente sarà anche questo il motivo che le persone dal carattere aspro e spigoloso ma dal cuore morbido come una naiade, si associano alla pianta del carciofo, che evidentemente si distribuiva alle truppe dell’antica Grecia, per le sue innumerevoli qualità che elargivano quali la vitalità e l’audacia.


 



Il Carciofo

domenica 25 gennaio 2015

L’agricoltura sociale

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agricoltura sociale ph Mimmo Ciccarese


Quando si parla di agricoltura sociale, ci si riferisce a una possibilità produttiva che non è solo retaggio di una precisa scelta etica ma è anche riguardo verso gli equilibri naturali che interessano ogni genere di collettività.


La vivacità dell’agricoltura sociale si espande e si orienta verso le aziende biologiche, verso i gruppi d’acquisto e il turismo solidale per creare una salda rete attiva contro l’omologazione dei consumi e le strutture che limitano le libertà delle civiltà rurali.


Con tali termini, i saperi e i sapori tipici, con il loro “chilometro zero”, la biodiversità e quindi la riproduzione di valori sussidiari come solidarietà, rispetto dei luoghi, del patrimonio artistico o architettonico prendono aspetto con il sostegno reciproco.


Nell’agricoltura sociale ritrovi il termine di mutualismo tra produttori e consumatori e il termine simbiosi riacquista la sua originale purezza. L’utenza della rete di fattorie sociali si amplifica e dimostra come un territorio può convivere con la produzione agricola e con ogni tipo di servizio.


Questo tipo di agricoltura cura le piaghe delle crisi di valori e di quelle molteplicità in via di estinzione che le banche dei semi rivendicano. Questo esempio diventa perciò “cura per gli altri” e ogni forma di semina un evento che unisce la ricerca e il ripristino di antiche varietà con il sano proposito di raccogliere naturalità dalle nostre produzioni.


L’agricoltura sociale che si occupa di vulnerabilità dei territori o di debolezze dell’essere urbano è certamente quella che si riassume nel fondamento dei valori e dei principi della Carta costituzionale che evidenzia il contenuto dell’art 3 che impone alla Repubblica di rimuovere i freni di ordine economico e sociale che ostacolano il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Simile modello produttivo è rafforzato con quello dell’art. 44 che rivolge l’intervento pubblico nel settore agricolo verso la cura della qualità del territorio e al perseguimento dell’equità sociale.


Con tale scelta si offre, quindi, una valida opportunità per recuperare il concorso tra le imprese agricole, tra gli esperti del settore del bio, tra le amministrazioni, le strutture di accoglienza turistica o i parchi naturali. Con tale cooperazione, inoltre, legami si saldano e aumentano il valore di fiducia, aiutano la cultura e la civiltà rurale a migliorare ciò che si riassume, in poche parole, come “qualità della vita”.



L’agricoltura sociale

sabato 17 gennaio 2015

Gli Agrumi nel Mediterraneo

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agrumiAlla sottofamiglia Aurantioideae della famiglia delle Rutacee, fanno parte i generi Citrus, Fortunella, Poncirus. I più noti sono l’arancio dolce e amaro, il mandarino, il limone, il pompelmo, il cedro. Di questa sottofamiglia ne esistono molte varianti nell’ambito dell’infiorescenza e del frutto moltissimi ibridi. I frutti che traggono l’origine dall’Asia minore, dalla Cina, dall’India, hanno raggiunto l’Europa con i Romani e in particolar modo per opera dei portoghesi.  La Sicilia è il maggior produttore italiano di agrumi che ne rappresenta circa i due terzi.


La leggenda narra che la dea terra Gea, per celebrare le nozze tra Giunone e Giove produsse degli alberi dai pomi dorati, simbolo di amore e fecondità. Giove preoccupato per il loro plausibile furto custodì gli agrumi in un meraviglioso giardino con a guardia le ninfe Esperidi, Aretusa, Esperse ed Egle e il drago Ladone. Il mito racconta che Ercole, nella sua undicesima fatica, mandato da Euristeo, avebbe ucciso il drago, soggiogato le ninfe e rubato i pomi.


Da questo racconto si dedurrebbe il senso augurale, connesso al matrimonio, come fregio di fecondità che si conferisce ai fiori d’arancio dai tempi delle crociate ai giorni nostri.


Sono molti gli stemmi dell’araldica di città e famiglie, che riportano il simbolo dell’agrume alcuni sono in Sardegna altri in Sicilia. Molto conosciuto è quello di Rodi Garganico, terra produttore di arancio, a indicazione geografica e denominazione protetta.


Frutti alleati del peso forma con vagone carico di fruttosio, sali minerali, acidi organici, fibre e vitamina c. Una forte dose di antiossidanti in grado, secondo i nutrizionisti, di contrastare l’invecchiamento e aumentare il sistema immunitario. Poche kcal per 100 g che suddividiamo in bionde, come naveline, valencia e pigmentate come il sanguinello, il moro e il tarocco nel caso delle arance. Gli agrumi sono ricchi di oli essenziali amarognoli che contengono tra le cellule delle bucce, una mescla di sostanze in grado di purificare pelle ed altri organi specialmente se gustati nella macedonia o nell’insalata.


 



Gli Agrumi nel Mediterraneo

sabato 10 gennaio 2015

Il fico mandorlato, analisi del suo valore

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fico mandorlatoPer il dizionario dei luoghi comuni il fico secco ha valore quasi pari a zero. Niente di più inesatto. In questo periodo di dolcezze, specialmente se mandorlato o spolverato di cacao, il fico secco vale molto di più. Questo  frutto avrebbe avuto, invece, più virtù nei tempi in cui i contadini, per ripartire di pura energia produttiva, si colmavano prima le tasche e poi lo stomaco. Quanti fichi secchi bastavano per reggere la fatica tra i campi per una dura giornata? Tutto dipendeva dalla personale dispensa del lavoratore. La famiglia, doveva, per questo, pianificare il numero di fichi da essiccare in funzione di tanti fattori e ridistribuire la provvista, in base alle pretese di tutti i suoi componenti.


Tra le operazioni di zappatura e di potatura non c’era solo ciò che si definisce oggi in agronomia come unità lavorativa uomo (ULU). Queste operazioni oggi si regolano meglio nel mondo del lavoro distinguendolo tra generico e specializzato.


Le calorie sono state l’unità di misura per il lavoratori dei campi. Se la giornata di un potatore sarebbe di 4 ore lavorative allora si potrebbe azzardare perfino la misura del suo fabbisogno calorico, un po’ come si fa per quantificare l’energia dal combustibile da riscaldamento. È ovvio che i principi di calcolo della paga quotidiana nel settore del lavoro diventano molto più complessi e comparare questi conteggi, oltre che doveroso, diventa oneroso.


Ci limitiamo perciò ad assorbire le informazioni nutrizionali per cui, secondo alcuni, un solo fico secco mandorlato , del peso di 10-12 g , darebbe circa 30 calorie (270-300 calorie ogni 100 g), qualcosa in più rispetto ad un fico appena colto.


Tali calorie giungono quindi, per la maggior parte con i carboidrati. Esse terrebbero in attività per circa un’ora un potatore adulto di corporatura media, per più di quattro ore un impiegata accanto al suo Pc, poco meno di mezzo tempo per un buon mediano di spinta. Per scrivere un articolo come questo ci vuole almeno un’ ora, secondo voi, avrebbe almeno il valore di un fico secco?



Il fico mandorlato, analisi del suo valore

martedì 6 gennaio 2015

La riscoperta della Befana

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024C’è una leggenda popolare che accomuna la figura dell’amata Befana con quella della Babushka russa. Entrambi sono vecchiette cariche di doni che giungono quando la stalla del Bambinello è ormai svuotata. Da quella consegna mancata l’imprendibile signora erra ancora per le case alla ricerca di nuove nascite da onorare.


Per alcuni la vecchietta che verrebbe fuori, al gelo del solstizio, altro non è che una ripresa pagana che sopravvive sin dai tempi più remoti e coincide con una celebrazione ciclica e lunare che consisteva nell’incendiare un pezzo di albero decadente, simbolo di una storia ormai invecchiata.


Il culto appare così con la lenta combustione dei desideri inappagati dell’anno trascorso ed esorcizza le future privazioni materiali e i possibili insuccessi. Allora, anche il carbone, nero avanzo del rituale è un omaggio poco gradito per chi si aspetta delle cose buone.


Per alcuni, la fata-strega, sarebbe la nipote di un santo o la consorte di un orco che abita di solito in luoghi sacri e inaccessibili, disposta a ricambiare virtù e comportamenti con doni di pregio oppure pietrificare con il suo sguardo non sempre benevolo.


In alcuni popoli, il potere del rito coincideva perfino con l’origine e la rinascita della natura e si celebrava in quelle notti incantate che seguivano il solstizio d’inverno, filtrandone la ricorrenza al cospetto di un’ennesima dea madre.


I romani e i germanici, con queste cariche d’energia immaginavano una legione di figure femminili volteggiare sulle semine autunnali per auspicare e proteggere i raccolti.


Il mito si riprende quando alla guida delle metafore si ritrova l’adorata Diana essenza divina della fertilità; la figura sarebbe divenuta un fantoccio pagano incendiato poi con le mescolanze dei credi religiosi dai tempi della stregoneria medioevale fino a quelli odierni.


Il giorno dell’Epifania è tutt’altro che invisibile, si attende con ansia e fiducia, non solo dai bambini, tra i consumi smodati dell’essere urbano e l’ineffabile decadenza sociale. La vegliarda più che assonnata, a bordo della sua magia, potrebbe rappresentare l’espressione di un risveglio etico oltre che una sana riscoperta dei cicli naturali



La riscoperta della Befana