sabato 27 dicembre 2014

La”mantagnata” Resistenza del Sud

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barometroC’è un angolo dell’estremo meridione mediterraneo, dove le giornate invernali sono spesso assolate, quasi mai uggiose. Questa terra luminosa si chiama Salento. I salentini non sono abituati a temperature rigide, penano, piuttosto, l’azione estrema della tramontana pungente e quella afosa dello scirocco.


Le correnti, qui, le distingui subito, anche se cambiano senza preavviso. Nel Salento, se cerchi bene, per ogni sua piccola comunità, puoi reperire una “rosa dei venti” che ti aiuta ad prevedere il tempo e ti indica uno spazio vitale per farti ritrovare.


Se il sole è così robusto, i salentini, si rifugiano, di solito, sotto l’ombra di un ulivo o dietro il calore di un qualsiasi  fortilizio, di ciò che per loro si usa definire come mantagnata. Quell’atto di arroccarsi sarebbe quasi un atavico e personale rituale simbolico e spirituale, un modo come tanti per proteggersi e difendersi da ogni avversità, di qualunque natura essa fosse.


Allora ti spieghi perché nel Salento ritrovi così tante torri costiere, i castelli, le chiese, le masserie e i villaggi rupestri pulsanti di storia, dove ti fermi un istante, per riflettere al riparo e al sicuro o per intendere un popolo e la sua arcaica presenza.



La”mantagnata” Resistenza del Sud

venerdì 26 dicembre 2014

50.000 lettori: grazie!

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samudaya copertinaUna soddisfazione! Dopo pochi mesi dal suo avvio, Samudaya raggiunge le 50.000 letture.


Con 16.000 feed back dall’Italia e quasi 23.000 dagli States, ma anche con altrettanti dalla Cina, dalla Federazione Russa, dal Giappone, dall’Irlanda, dalla Svezia o da Taiwan, la piccola barchetta di Samudaya naviga oltre gli oceani e raggiunge con la sua solita eleganza chi apprezza e condivide la nostra cultura mediterrala barchetta di samudayanea.


Quattro lettori ogni sessanta minuti che fanno una media di circa 100 letture giornaliere, possono degustare le notizie che il webblog propone nelle sue rubriche. Con  tali risultati Samudaya si conferma anche come un entusiasmante viaggio, un ponte che unisce spazi e popoli attraverso le immagini, le parole, la musica, l’arte o la letteratura.


Il ritaglio culturale che si è definito con le “Cartoline da una Terra” è sempre più ricco ed desideroso di raggiungere altri utenti oltre che i più affezionati. Il progetto Samudaya migliora perciò la grafica e i colori, interagisce e risponde, commenta e propone, per esaudire il gusto del suo lettore preferito.


Samudaya è il connubio di tante esperienze maturate nel campo dell’agricoltura, della biologia, dell’architettura, della filosofia e del benessere della persona fino a diventare, quasi per magia, una piccola isola, un giardino, una città o un fiore per tutti quelli che lo seguono a cui sentiamo di ringraziare con vero cuore.


Cogliamo l’occasione per salutare e ringraziare tutti i nostri conterranei che vivono e lavorano all’estero.



50.000 lettori: grazie!

venerdì 19 dicembre 2014

L’albero di Yule

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luci di natalePer le tradizioni precristiane dell’emisfero settentrionale, quali quelle celtiche e germaniche, la festa del solstizio d’inverno, chiamata Yule doveva essere un giorno veramente speciale. Ogni anno, prima dell’avvento cristiano, questi popoli riservavano questo periodo alle loro divinità. Lo yule era uno degli otto giorni solari che prendeva il nome probabilmente da Hiol (ruota) per il semplice fatto che nel solstizio d’inverno il circolo dell’anno si scopre al suo estremo inferiore e inizia a risalire sulla linea dell’orizzonte. Un evento che dopo il cristianesimo si ripresenta, ancora oggi, con tutta la sua energia. Per i linguisti il nome dato dai germanici a quel 21 dicembre sembra avesse origini indo europee, forse persiane, un nome che per islandesi e finnici indicherebbe anche il Natale.


Fu Gregorio Magno al tempo della conversione cristiana a surrogare per i popoli nordici il termine Yule con quello di Natale cercando di conservare integre molte loro tradizioni originarie quale l’uso decorativo del vischio o dell’agrifoglio. Con tale ricorrenza gli alberi riprendono la loro importanza in questo prezioso periodo, come vitalità simbolica di fertilità, unione, persistenza e lungimiranza.


L’albero di yule si ripresentava anche come l’albero della fortuna e della ricchezza e conserva ancora analogie con l’albero cosmico di Ygdrasill che i celti divinizzavano insieme al loro dio Odino.  Non è un caso che il dio Odino fosse raffigurato come un uomo barbuto e giudizioso disposto a ricambiare di doni il suo popolo se esso avesse nutrito il suo cavallo alato.


Una figura analoga certamente al nostro San Nicola Vescovo e poi al paffuto Babbo Natale che all’opposto provvede personalmente lui a sfamare le sue renne. Un albero su cui i popoli pagani potessero appendere le loro campane che al loro movimento avrebbero risvegliato e richiamato gli spiriti e una stella a cinque punte sulla sua cima più alta, a rappresentare il pentagramma dei cinque elementi naturali.


Per altre tradizioni, nel giorno dello Yule, si commemora la fine del re Agrifoglio pianta simbolica dell’anno appena albero di Nataletrascorso per far posto a quello del re Quercia che esprime l’anno nuovo e decreta l’ascesa solare. Con questo passaggio di regni dunque,  lo Yule diventa un giorno speciale, così carico di simboli e magie tanto che nelle feste romane del Sol Invictus si usava vegliare dal tramonto all’alba seguente per accertarsi che il sole riapparisse ancora.


Un rito così rilevante anche per le donne celtiche che attendevano nell’oscurità l’arrivo dei loro uomini a portare la luce delle fiaccole incerate su sacri ceppi di quercia o frassino utile per accendere un grande fuoco simbolo di morte, trasformazione e rinascita allo stesso tempo.


Quello che più sorprende è che per ogni popolo, sia fosse, druidico, celtico, sassone, gaelico, slavo greco o romano questo giorno rappresentava la nascita di una divinità associata di solito al culto del sole, alla giustizia e al bene.


 



L’albero di Yule

martedì 16 dicembre 2014

L'amaro della cicoria selvatica

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ph m.ciccarese ph m.ciccarese


Si riporta sulla tavola il gusto un po’ amaro della cicoria selvatica già lessata che l’olio novello amplifica senza disturbare su cui si chiede il permesso di salare prima di arrotolarla tra la forchetta.


La cicoria si raccoglie tra le terre incolte non contaminate, con una semplice torsione della lama sul colletto della radice che si attacca alle foglie e si ripone nel solito sacchetto occasionale.


La raccolta spontanea quando rispetta i luoghi è un esercizio utile per i cercatori, ti fa discernere le specie che gli somigliano, quelle non eduli, che il non botanico assegna con un nome volgare e cangiante.


Il suo etimo viene dall’arabo o dal greco antico, appartiene alla famiglia delle composite ma si è sempre raccolta perché contiene virtù inaspettate in grado di regolare molte funzioni del nostro organismo.


L’amaro della verdura appena raccolta sembra sia dovuto alla presenza della cicorina un glucoside che potrebbe riattizzare una nuova passione per chi si sorregge con le erbe.


Le radici della Cichorium Intybus seccate e tostate, si surrogavano al caffè un po’ come facevano i generali prussiani prima della battaglia.


 



L'amaro della cicoria selvatica

giovedì 11 dicembre 2014

La nave va mentre la fava si cuoce

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fave decorticateLa prima azione da fare per la preparazione delle faenette (purea di fave) e di ammollare le fave secche decorticate in almeno due litri d’acqua mezza giornata prima della messa a cottura. Si preferisce pianificarle la sera perché restino tutta la notte a bagno in acqua tiepida. Ma cosa succede nel frattempo alle nostre fave mentre noi dormiamo? Non sempre i risultati di un ammollo prolungato sono soddisfacenti.


Come ogni seme di legume commestibile la fava contiene amido e proteine. L’amido nel seme, addensato sotto forma di grani, si rigonfia d’acqua, durante la cottura si rapprende e diventa una massa pastosa e tenera.


La cottura non deve essere rapida, perché l’amido potrebbe cuocersi quando non è completamente saturo d’acqua e la nostra purea si compatta rovinosamente. Il lungo ammollo e il fuoco lento in pentole di terracotta, dovrebbero perciò offrire ottimi risultati.


Il segreto della nonnina è di non utilizzare durante la cottura nessun ingrediente, di aggiungervi a piacere spezie, cipolla e aglio solo alla fine qualche ora prima di servire. Si può aggiungere una patata sbucciata varietà Siegliende di Galatina, possibilmente, e mescolare con amorevole energia fino a che la nostra purea non assume un colorito dorato e una certa densità. Inutile dirvi che l’aggiunta di olio extravergine d’oliva, o di peperoncino per chi lo gradisce, completa il nostro contorno.


Scriveteci se queste informazioni sono state di vostro gradimento!



La nave va mentre la fava si cuoce

domenica 7 dicembre 2014

Te la Mmaculata la prima ffrizzulata, te la Cannilora l'urtima frizzola

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PittuleQuelle che i salentini chiamano pittule corrisponderebbero agli zippuli calabresi e ai patt’ del materano. In ogni caso, le accomunano la forma, la preparazione e gli ingredienti, l’importante non chiamarle frittelle. Sono piuttosto una merenda da antipasto meridionale, forse d’origine araba.


Queste palline di pasta lievitata sono devolute ad friggere nell’olio d’oliva prima di passare sul nostro palato. L’impasto è senza dubbio una base per la creatività dei cucinieri che sbrigliano il loro estro dai giorni della seconda decade di dicembre fino a quelli della candelora. Basta qualche pittula e un buon bicchiere di compagnia per passare una serata, soprattutto se farcita con cavoli mezzi cotti, pomodori secchi e olive nere denocciolate.


Ad ogni popolo, dunque, la sua pittula dorata da artigliare lì per lì, ancora calda per non perdere la priorità acquisita, prima che diventi fredda e gommosa. A Brindisi, le pittulicchie, si preparano la vigilia dell’Immacolata (8 dicembre), nel Salento la prima frittura cade insieme al vino novello l’undici di San Martino. I  tarantini amano mangiarle cosparse di grani di zucchero, vincotto di fichi e miele, ma in Calabria si fa di peggio intingendola nella focosa nduja.


“Te minte quatthru pittule intru allu piattu” (ti pone quattro pittule nel piatto) è un detto riferito a chi parla più del dovuto e a sproposito facendoti toccare il cielo, con esaltato ottimismo e poi nel suo quotidiano non concretizza alcunché buono. La massima si riferisce alla pittula proprio per la reperibilità dei suoi ingredienti, farina, lievito e acqua e la sua preparazione. Nonostante ciò sembra tutt’altro che facile da realizzare



Te la Mmaculata la prima ffrizzulata, te la Cannilora l'urtima frizzola